
Noi italiani siamo fenomenali. Conosciamo tutto, parliamo di tutto, litighiamo su tutto. Siamo l’incarnazione dello spirito degli enciclopedisti. Un sapere universale, onnisciente, che maggiormente illumina quella singolare classe di “tuttologi” che sono gli opinionisti. Ieri l’altro, al tempo del Covid, eravamo virologi. Poi è scoppiata la guerra alla periferia dell’Europa e ci siamo ritrovati a essere fini strateghi militari. Oggi, che Donald Trump sta imponendo all’Europa il nuovo ordine mondiale attraverso la ridefinizione dei rapporti commerciali, ci siamo scoperti dotti economisti. Basta scorrere la rassegna stampa di ieri, occupata in massima parte dai commenti sugli esiti dell’incontro, in Scozia, tra Donald Trump e Ursula von der Leyen per avere la chiara percezione di quale tipo di ordine regni a Babilonia.
Si parla di dazi e si afferma con ineffabile sicumera tutto e il contrario di tutto. Roba da matti. A cominciare dal de profundis che il mondo progressista ha intonato per stigmatizzare l’intesa raggiunta tra il presidente statunitense e la presidente della Commissione europea sulla fissazione al 15 per cento dei dazi alle merci esportate dai Paesi dell’Unione europea negli Stati Uniti. Tariffa di riferimento generale che, tuttavia, prevederà numerose deroghe in base ai settori merceologici. Per le anime belle, che sono schierate contro la destra, si tratta di una resa dell’Europa alla prepotenza di Donald Trump. Un giudizio duro che non si capisce su cosa fondi, visto che il negoziato ha sì registrato un primo punto d’intesa tra le parti, ma non l’unico. E non l’ultimo, definitivo. Soltanto in seguito, quando saranno fissati in dettaglio i piani tariffari prodotto per prodotto, si potrà valutare se vi saranno stati un vincitore e uno sconfitto, oppure se a vincere saranno state entrambe le parti in gioco. Fino a quel momento, di cosa stiamo parlando? Del nulla.
Naturalmente, i progressisti, a cui il bene dell’Italia non frega niente, hanno interesse a far risalire all’azione di governo di Giorgia Meloni tutto ciò che di negativo potrà venire al nostro sistema produttivo dall’intransigenza del capo della principale potenza globale. Se piove troppo è colpa della Meloni, se non piove affatto idem. É tutto ciò che la sinistra sa dire per certificare la propria esistenza in vita. Nello specifico, quelli del Partito democratico si sono superati: in Europa hanno votato la signora Ursula von der Leyen ma, sul dossier dazi Usa-Ue, l’hanno attaccata frontalmente parlando di resa e di genuflessione al cospetto del tycoon americano, ma assolvendola da ogni responsabilità perché sarebbe stata vittima delle pressioni pro-trumpiane esercitate su di lei da Giorgia Meloni. Quindi, se il negoziato, a loro dire, è sostanzialmente fallito la colpa di chi è? Di Giorgia Meloni, of course.
Quando leggevamo di qualche teologo medievale convinto che le pene dell’Inferno i peccatori cominciassero a scontarle sulla Terra, non avevamo l’esatta cognizione di ciò che volesse significare e, soprattutto, come materialmente funzionasse il meccanismo della pena anticipata prima del passaggio alla dannazione eterna. Da quando ci tocca di sentire le elucubrazioni dei progressisti, abbiamo compreso perfettamente a cosa quei dottori medievali si riferissero: sentire parlare sull’argomento Elly Schlein, o il suo “esperto” Antonio Misiani, il comunista del “tengo famiglia”, Nicola Fratoianni, è un supplizio per il nostro udito, per la nostra intelligenza e per il nostro buongusto. Parlano del nulla e sul nulla azzardano soluzioni alternative che, se fossero stati loro al Governo, ci avrebbero portati dritti a sbattere come sistema-Paese. A sentirli, l’Unione europea avrebbe dovuto rifiutare un accordo svantaggioso e avviare una guerra commerciale contro gli Usa. Ma si rendono conto di ciò che dicono? Anche a sparare cavolate bisogna darsi una misura.
Piaccia o no, Trump ha dimostrato di avere le idee chiare sulla condizione del proprio Paese. E la necessità di riequilibrare la bilancia commerciale con gli Stati dell’Ue è stato un punto programmatico che ha inteso perseguire fin dalle prime battute del suo mandato presidenziale. L’Europa non poteva pensare di cavarsela con una stretta di mano e una pacca sulla spalla. Bisognava rinegoziare una nuova relationship destinata ad avere ricadute inevitabili sulla qualità dell’alleanza geostrategica tra le due sponde dell’Atlantico. Perciò, per assicurare la tenuta di un rapporto fondamentale per la sopravvivenza di un Occidente ancora coeso e vitale, si doveva trattare il dossier economico con sano pragmatismo e con spirito costruttivo. Ed è ciò che ha fatto la presidente von der Leyen, ben consapevole della disparità di forze tra le due parti negoziali.
Già, perché a un peso massimo qual è la potenza statunitense si contrapponeva un nano politico che è l’Unione europea, che non è potenza globale, né economica né geopolitica, perché non una comune Difesa e non ha una comune politica estera. Ragione per la quale, nelle condizioni date, l’unico obiettivo realistico alla portata della von der Leyen sarebbe stato quello di raggiungere un’intesa quale che fosse, per dare certezza alle economie comunitarie. Che è ciò che gli imprenditori europei, coinvolti nell’export verso gli Stati Uniti, hanno chiesto, valutando l’incertezza sulla fissazione dei dazi molto più perniciosa dell’innalzamento dei dazi stessi. Questo obiettivo, sia pure minimale, la von der Leyen lo ha centrato. Ora la partita, quella vera, si gioca sulle misure di dettaglio che possono fare tutta la differenza del mondo. E, siatene certi, Trump userà la leva delle imposizioni settoriali per erodere ulteriormente il grado di compattezza di un’Unione europea, che lui fatica a riconoscere come soggetto unitario con il quale interloquire.
Per intenderci, attraverso il regime delle esenzioni o dei semplici abbassamenti tariffari su determinati prodotti importati, il presidente Usa potrà fare la selezione degli amici e dei nemici nel variegato fronte europeo. Picchiare duro su una categoria di beni che vengono importati da un Paese europeo il cui Governo si è mostrato particolarmente ostile a Trump è uno strumento alternativo ma efficace per superare il muro dell’unità che, nella prima fase della trattativa, l’Unione europea ha mantenuto nonostante i molti mal di pancia manifestati tra i singoli attori europei. In proposito, si valutino le intemerate antistatunitensi di un Emmanuel Macron in preda a un delirio di onnipotenza. Da qui la cautela del nostro premier nelle dichiarazioni a commento dell’esito dell’incontro scozzese di Trump con Ursula von der Leyen. Giorgia Meloni sa che, concluso il primo step negoziale, tocca a lei – gli altri leader europei faranno lo stesso per salvaguardare i loro interessi nazionali in barba agli osannati principi di solidarietà comunitaria – giocarsi la partita con l’amico Trump, trattando perché i settori merceologici sui quali l’Italia è particolarmente attiva nell’export con gli Usa non vengano penalizzati.
Chiaro come funziona? Dolersi o bearsi dei dazi al 15 per cento non significa un fico secco. I principali settori trainanti del nostro export negli Usa, nel 2024, sono stati la farmaceutica per circa 10 miliardi di euro; i macchinari e le apparecchiature per 12miliardi 816 miloni; i prodotti alimentari per 4 miliardi 890 miloni; le bevande per 2 miliardi 840 milioni; gli articoli in pelle per 2 miliardi 643 milioni; l’abbigliamento per 2 miliardi 439 milioni; i prodotti chimici per 2 miliardi 882 milioni; le apparecchiature elettriche per 2 miliardi 882 milioni (fonte: Info mercati esteri-Osservatorio economico). Se, su queste categorie di beni l’Amministrazione americana non calcherà la mano, applicando tariffe daziali più contenute, comunque si metteranno le cose in Europa, per l’Italia sarà un gran risultato. Ecco perché accanirsi oggi nell’esprimere giudizi sulla trattativa commerciale Usa-Ue equivale a una discussione da bar dello sport. E neanche.
Affrontare questioni a livello internazionale che richiamano l’alta politica – e la riscrittura di un ordine commerciale globale rientra tra queste – richiede una postura comportamentale ispirata alla massima prudenza. Categoria concettuale che il pensiero conservatore conosce benissimo in quanto ad esso connaturata. E Giorgia Meloni, che si è iscritta in età adulta al conservatorismo europeo, mostra di esserne un’allieva attenta e diligente. Che è un gran bene per la reputazione di un’Italia che vuole dimostrare al mondo di essere una nazione saggia, leale, ma con la schiena dritta.
Aggiornato il 30 luglio 2025 alle ore 09:48