
Il redde rationem andato in scena ieri dinanzi al Consiglio comunale di Milano è stato, occorre dirselo chiaramente, assai deludente.
Il sindaco Giuseppe Sala non si è dimesso (in realtà non è stato dimissionato dal Partito Democratico, ciò che fa tutta la differenza del mondo, sì perché non sarà lui da oggi in poi a menare le danze), si è limitato ad una difesa d’ufficio del proprio operato (la rivendicazione delle “mani pulite” è quantomai sterile, perché la contestazione che la Procura della Repubblica di Milano gli rivolge si risolve in tutt’altro), lamenta la fuga di notizie, ma si guarda bene dal dipanare per intero il discorso (le notizie non fuggono, semmai vengano gentilmente accompagnate alla porta delle redazioni dei giornali e, quindi, se si vuole affrontare il tema si chiede con forza che sia giudizialmente ricostruito questo percorso, ciò che Sala si è guardato bene dal fare).
Al fine della fiera, tutto si è risolto in una polemica con le opposizioni che (sai la novità) strumentalizzano le indagini giudiziarie.
Insomma, il Sala che ci promettevano “furioso” si è nascosto dietro il paravento.
E allora, le questioni che non ha affrontato lui (per vero in pessima compagnia dell’intera classe politica da più di trent’anni a questa parte) li affrontiamo noi.
Come abbiamo scritto su queste pagine, la contestazione della Procura di Milano riposa in una interpretazione evolutiva del delitto di corruzione che ne allarga i confini applicativi, così superando l’intervenuta abrogazione del delitto di abuso di ufficio. Il tema non eludibile non è, pertanto, la travagliata storia urbanistica del Pirellino o le mani pulite o meno di Sala, ma se nel nostro sistema di civil law (di legge scritta, formale) il giudice debba limitarsi a interpretare la legge ed applicarla o possa ritagliarsi una funzione creatrice del diritto.
La risposta di chi scrive a questo interrogativo è netta: l’opera creatrice di diritto da parte della giurisprudenza è, sotto un profilo sistemico, patologica perché la norma la crea il Parlamento e non il magistrato.
Una classe politica degna del proprio ruolo affronterebbe questo tema senza infingimenti, perché continuare a chiudere gli occhi su questa attività di supplenza giudiziaria rischia di dare luogo a un corto circuito istituzionale che può fare implodere il sistema.
Certo, qualcuno ci potrebbe rispondere che il modello illuministico del giudice bouche de la loi è in crisi e, persino, che il sacro articolo 101 della Costituzione (“i giudici sono soggetti soltanto alla legge”) sia divenuta una norma palindroma, da leggersi in entrambi i versi.
Se, tuttavia, in definitiva, siamo a quella “politicizzazione della giurisdizione” preconizzata un secolo fa da Carl Schmitt occorrerebbe dirselo chiaramente e, soprattutto, se questo ruolo “nuovo” a cui sarebbe chiamata la magistratura debba incidere sul suo statuto.
A tal proposito, appaiono profetiche le parole di Luciano Violante: “Questo giudice si allontana sempre più dal modello rivoluzionario e napoleonico del magistrato-funzionario e si avvicina sempre più al modello americano, componente esplicito del sistema politico. Conseguentemente questo magistrato diventa sempre più un attore politico. Di questo mutamento, però, molta parte della magistratura coglie l’aspetto del privilegio, ma ignora quello della crescente responsabilità”.
Ed eccoci all’elefante nella stanza che Sala, e con lui un’intera classe politica, fingono di non vedere: se il giudice del nostro tempo è divenuto “attore politico” può essere lo stesso nato bouche de la loi, selezionato e organizzato in carriere vitalizie di tipo burocratico?
Ad una prossima e si auspica più consapevole Politica (con la P maiuscola) l’ardua sentenza.
Aggiornato il 22 luglio 2025 alle ore 12:28