
È sorprendente che ci si sorprenda di Donald Trump. Lui è lui, e fa il suo mestiere che è quello di presidente degli Stati Uniti d’America, non della Florence Nightingale dell’Unione europea. Vale per le politiche della difesa e per quelle che regolano il commercio internazionale. Dunque, Trump il cattivone, il “cavallo pazzo”, il nemico che vuole fare male ai vecchi alleati dell’altra sponda dell’Atlantico. Non sembra anche a voi una lettura troppo semplicistica di ciò che sta avvenendo con la partita dei dazi? La verità è che – a proposito del negoziato Usa-Ue sui dazi, che non procede come dovrebbe, o come si vorrebbe – sia assolutamente lunare pensare di risolvere una questione, che è tutta dentro la geopolitica, con uno spericolato esercizio di psicanalisi sulla personalità (disturbata) del presidente degli Stati Uniti d’America. La verità è che, dopo 80 anni nei quali gli Usa si sono caricati del compito di essere il consumatore di ultima istanza delle produzioni dei Paesi alleati prima, e, successivamente, del mondo, la struttura socio-economica americana non possa più reggere da sola un tale onere.
La verità è che gli attuali vertici statunitensi hanno un disperato bisogno di riportare una parte della manifattura all’interno dei confini nazionali perché non possono smettere del tutto di essere dei produttori, limitandosi alla sola funzione di consumatori se, poi, su un altro versante, debbono rispondere alla domanda di sicurezza globale che gli viene rivolta dalla maggior parte degli Stati della comunità internazionale, Occidente in testa. Certo, alle imprese italiane, che hanno una spiccata attitudine all’export, la decisione di Washington di innalzare barriere protezionistiche non fa piacere. Meglio sarebbe lasciare le cose come sono. Ma se l’interlocutore si sveglia e dice: “la festa è finita”, che si fa? Si frigna e si fanno i capricci come i bambini a cui sono stati tolti i giocattoli o ci si ferma a ragionare con serietà su come ovviare a uno scenario che palesa delle negatività per gli interessi degli esportatori?
Per farla ancora più semplice: con Trump s’ingaggia una guerra dei bottoni, fatta di dispetti e di pseudo-ritorsioni o si negozia tenendo nervi saldi e barra dritta? Un tempo un interrogativo del genere sarebbe stato definito: “alla Max Catalano”, dal personaggio dell’allegra compagnia di Quelli della Notte, maestro trombettista e dell’ovvio nel salotto di Renzi Arbore. Tuttavia, nel momento che viviamo, anche l’ovvio rischia di essere una cosa complicata. Proviamo allora a fare un minimo di chiarezza. Nel tira-e-molla della trattativa, “cavallo pazzo” Trump invia una lettera alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nella quale si dice lieto di annunciare la fissazione di un dazio generale per tutte le merci provenienti dai Paesi Ue del 30 per cento. La nuova tariffa verrà applicata dal 1° agosto. Nel frattempo, Trump avverte von der Leyen: “Se reagirete con altre tariffe il vostro importo verrà aggiunto alla cifra iniziale”. Se fosse vero, per i produttori europei sarebbe una botta micidiale mentre, a sentire Trump, il 30 per cento su tutti i prodotti spediti negli Usa colmerebbe solo in minima parte il deficit commerciale – storico – che fa pendere la bilancia dell’import-export dalla parte europea a danno di quella americana. Se fosse questa la decisione finale, il punto di caduta della contrattazione in corso.
Ma lo è? Ora che conosciamo meglio la metodologia negoziale, da giocatore di poker, di Donald Trump possiamo asserire che un margine di trattativa vi sia e che il dialogo tra le parti vada intensificato e non annichilito. Abbiamo anche imparato che, sulla materia tariffaria, la competenza a trattare è dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Quindi, non Roma o Berlino o Parigi ma Bruxelles, per tutti. Benissimo! Ma qui sorgono interrogativi che si tirano dietro molti sospetti. I vertici Ue hanno capito che per Donald Trump i dazi non sono un fine ma un mezzo per raggiungere un obiettivo che resta primariamente politico, non commerciale? Hanno capito o no che l’ordine mondiale sta cambiando e Donald Trump è stato chiamato dal suo popolo a essere il protagonista della riscrittura delle nuove regole e dei nuovi equilibri mondiali, non il destinatario passivo? Hanno capito i vertici Ue che il bersaglio grosso, non soltanto commerciale ma geopolitico, che Trump intende colpire non è la sfibrata noblesse statuale della vecchia Europa ma la tigre cinese che cresce nutrendosi del sangue (in senso figurato) degli occidentali? Hanno capito, Ursula e i suoi “commissari”, che la forzatura sui dazi imposta da Washington è un diverso modo di Trump di chiedere ad alleati dei quali non si fida, o di cui quanto meno dubita, da che parte intendano stare, se con lui o con il dragone cinese? Se vogliano continuare a sedere alla tavola dell’Occidente, contribuendo con equità a pagare le spese del banchetto, o fare gli scrocconi, provando a imbucarsi a tutte le feste organizzate in giro per il mondo?
Ora, se non vi sono dubbi nella testa della presidente della Commissione sulle reali dimensioni della partita in corso; se lei ha le idee chiarissime sul da farsi con Trump e, soprattutto, ha il pieno mandato dai 27 Stati Ue a negoziare parlando a nome dell’Unione con una sola voce, la sua, allora ci spieghi, di grazia, che cavolo ci fa il signor Maroš Šefčovič negli Usa da settimane a chiacchierare con gli interlocutori statunitensi per non combinare un fico secco in termini di accordo sui dazi? Si dirà: Šefčovič è il commissario europeo per il Commercio, spetta lui trattare in nome e per conto dell’Ue. Se è così, allora stiamo freschi. A Bruxelles non hanno capito un tubo. O, forse, hanno capito troppo bene e, per questo, hanno inscenato una farsa pur di nascondere la verità ai popoli dell’Unione. E qual è la verità? Che l’Unione europea, quale soggetto politico unitario non esiste, è una finzione; ogni Paese tira per proprio conto e si preoccupa esclusivamente dei propri interessi nazionali. E, visto che una verità potenzialmente devastante per le speranze e le fantasie degli “europeisti” non la si può mettere in piazza, meglio fingere di trattare come Unione per poi dire: se è andata male la colpa non è nostra ma di colui, brutto e cattivo, che sta alla Casa Bianca.
In una tale cornice di ipocrisia, la figura di burocrate della stazza di Šefčovič calza a pennello. Se la trattativa è politica, Šefčovič c’entra come i cavoli a merenda. Lo conferma il suo profilo personale. Slovacco, una vita spesa all’interno delle stanze ovattate della Commissione europea, a Bruxelles. È in ambito Ue dal 2004. Prima come rappresentante permanente della Slovacchia presso l’Unione europea, poi dal 2009 e ininterrottamente fino a oggi, da commissario, con tutte le presidenze che si sono succedute in questi anni. Uno che Palazzo Berlaymont (sede della Commissione a Bruxelles) lo conosce più delle sue tasche, di problemi reali dei produttori europei cosa ne può sapere? Li ha mai visti da vicino? Non li ha affrontati certo nel suo Paese di provenienza: la piccola Slovacchia. Una popolazione al 2024 di 5.424.687 abitanti. Meno di quanti ne abbia la Campania. Con un Prodotto interno lordo, nel 2023, di 132,9 miliardi di Usd, inferiore a quello realizzato, in pari data, dal Veneto (197,1 miliardi di euro). Con un export nel 2023 di 108 miliardi di euro, di molto inferiore a quello della sola Lombardia nello stesso anno (163 miliardi di euro).
Avrebbe avuto molta più competenza e autorevolezza un Vincenzo de Luca nella versione di Maurizio Crozza, se la von der Leyen avesse mandato lui a Washington a trattare con la Casa Bianca invece del “burocrate” Šefčovič. Lo slovacco made in Bruxelles è andato per discutere di regole e numeretti mentre la squadra di Trump intendeva parlare di riposizionamenti geopolitici. Di questo passo sarà una fortuna se non andrà peggio del 30 per cento. Dalle nostre parti c’è un detto che recita: chi vuole vada, chi non vuole mandi. Ursula ha mandato, segno che non aveva la volontà – più probabilmente la legittimazione politica – di affrontare l’interlocutore Trump in un faccia-a-faccia e di trattare alla pari un accordo Usa-Ue. “Cavallo pazzo” Donald è stato da subito consapevole della debolezza strutturale del vertice Ue e ne ha approfittato per fare il suo gioco. Perché lui è Trump e non Florence Nightingale. Quindi, il problema non è la sua politica ma è la nostra inconsistenza come europei. E cosa accade quando un peso piuma si scontra con un peso massimo? Paga dazio. Appunto.
Aggiornato il 16 luglio 2025 alle ore 14:45