
Va bene tutto, ma questa storia del nostro ministro degli Interni cacciato via dalla Libia cirenaica, non si può sentire. È troppo. Per l’Italia e per un’Unione europea che dimostra sempre più la propria inconsistenza geopolitica. Adesso è tutto un precipitarsi a mettere pezze a colori a ciò che è accaduto ieri l’altro a Bengasi dove, appena atterrata, la delegazione Ue – composta dal commissario europeo alle migrazioni, l’austriaco Magnus Brunner, dal ministro degli Interni di Malta, Byron Camilleri, dal ministro greco delle migrazioni e dell’asilo, Thanos Plevris, e, appunto, dal nostro Matteo Piantedosi – è stata bloccata in aeroporto con il ridicolo pretesto di “omissione delle procedure che regolano ingresso, circolazione e residenza dei diplomatici stranieri” e invitata a lasciare immediatamente il Paese perché giudicata non grata.
Sarà stato anche un pasticcio diplomatico – la Farnesina accenna a “incomprensioni” – che spingerà quelli bravi a inondarci di sofisticate analisi sulla situazione interna allo Stato libico, ma noi la facciamo semplice, alla maniera dell’uomo della strada: i libici non avrebbero dovuto osare un comportamento da piccoli malviventi di borgata ai danni di un rappresentante del nostro Paese. Non lo dimenticassero mai i beduini libici: siamo l’Italia e la Libia resta pur sempre uno scatolone di sabbia con tanto oro nero che le scorre nelle viscere. Ora, sappiamo bene che ciò che è accaduto non sia altro che il triste epilogo di una follia cominciata nel 2011 con la defenestrazione di Muʿammar Gheddafi, per mano della Francia di Nicolas Sarkozy, spalleggiata dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti d’America di Barack Obama, orchestrata allo scopo di mettere fuori gioco l’Italia da quello scenario economico-strategico. Emarginazione alla quale i Governi di Roma, che si sono succeduti dal 2011, non hanno opposto alcuna resistenza.
Anzi, con il Governo Conte I (in cui, ahinoi, c’era anche la Lega) siamo fuggiti via a gambe levate lasciando all’autocrate turco Recep Tayyip Erdoğan l’opportunità di difendere il legittimo Governo di Tripoli dal tentativo del capobanda di Bengasi, Khalīfa Ḥaftar, di rovesciarlo, con la bella conseguenza che adesso a Tripoli comandano i turchi e lì l’Italia non conta più nulla. E come se non bastasse, la Cirenaica è pronta a dare ospitalità alla flotta russa del Mediterraneo, di recente sfrattata dalla Siria, e a concedere basi di lancio missilistiche a Mosca perché le possa puntare contro i Paesi del Sud Europa, Italia compresa. Lo schiaffo dato a Piantedosi è solo l’assaggio di ciò che una banda di predoni potrebbe fare a un Paese per costringerlo a piegarsi ai suoi ignobili ricatti. La minaccia dell’invasione migratoria è tra questi, ma non è l’unico.
Allora la domanda è: dove pensiamo di andare come sistema-Paese se l’ultimo dei farabutti può prenderci impunemente a sberle? Cari membri del Gabinetto Meloni, abbiate pietà di noi! Non veniteci a raccontare la storiella della ricucitura diplomatica perché è un’inaccettabile scempiaggine (il temine giusto sarebbe quello usato da Donald Trump nel commentare le dichiarazioni di Vladimir Putin: str…ta). Vi sono dei momenti nella storia nei quali una nazione degna di questo nome deve mostrare i muscoli, se li ha. Bisognerebbe prima rispondere allo schiaffo con un energico sganassone e un calcio assestato nelle parti basse e poi, rimessa a posto la corretta gerarchia nella scala dell’autorevolezza internazionale, si potrebbe anche riprendere il dialogo.
Si obietterà: si propone di fare la guerra alla Libia? Certo che no. Non è necessario usare il bazooka per buttare giù una mosca. Vi sono azioni concrete che, andando a colpire le tasche dei grassatori nordafricani, fanno più male delle bombe. Esempi? Una delle maggiori problematiche generate dall’instabilità libica è il proliferare del contrabbando petrolifero, in particolare dalla Cirenaica. È corretto sostenere che i proventi illegali afferenti dal traffico dell’oro nero rappresentino una tra le principali fonti di entrata dei clan che si contendono il potere in Libia. Khalīfa Ḥaftar non fa eccezione. Il suo clan ha creato una Oil company, la Arkenu, con sede a Bengasi, che, secondo fonti di intelligence, solo lo scorso anno avrebbe esportato illegalmente oltre 5 milioni di barili di petrolio dal terminal di Marsa Al-Hariga a Tobruk, per un giro di affari del valore di almeno 600 milioni di dollari, secondo una stima dell’agenzia Reuters. Principali destinazioni del traffico illegale: i porti della Cina. La società petrolifera è stata fondata nel 2023 ed è controllata da Saddam Ḥaftar, figlio di Khalīfa.
Tutto questo bendidio di petrolio, che porta una ricchezza spropositata al clan di Ḥaftar, passa beatamente sotto il naso delle navi impegnate nella missione dell’Unione europea denominata “EUNAVFOR MED – Irini” che, tra gli altri compiti, dovrebbe effettuare il monitoraggio sull’esportazione illegale di petrolio. Caso vuole che il comandante dell’Operazione (Operation Commander) sia il contrammiraglio Valentino Rinaldi. Un italiano. Dallo scorso 4 aprile anche il comando tattico delle Forze in mare dell’Operazione “Eu Naval Force Mediterranean IRINI” è stato affidato a un nostro connazionale, il contrammiraglio Alessandro Di Biasi. Ora, se la task force europea (TF 464), che opera sotto bandiera Ue, non può ingaggiare alcuna azione di interdizione diretta delle navi contrabbandiere ma solo monitorarne gli spostamenti e le rotte, la Marina militare italiana può fare molto.
Cosa aspetta il premier Meloni a ordinare un’azione di polizia internazionale alle nostre fregate, perché blocchino le petroliere che fanno la fortuna (illegale) della famiglia Ḥaftar? Cosa si aspetta a mandare un chiaro segnale al “guappo di cartone” che sta a Bengasi per comunicargli che la festa è finita? Visto che l’unico suono che il suo udito percepisce è il fruscio delle banconote, si faccia in modo che Ḥaftar pensi di essere diventato sordo. E se non dovesse bastare, gli si potrebbe sempre mandare una squadra navale della nostra Marina a fargli compagnia e a tenerlo d’occhio al largo di Tobruk e di Bengasi. E visto che li abbiamo acquistati e pagati un botto, potremmo mostrare a quel galantuomo di Ḥaftar cosa sono in grado di fare i cacciabombardieri F-35B (Stovl), assegnati alla portaerei Cavour, non appena la nostra nave ammiraglia avrà terminato i lavori di manutenzione e lasciato l’arsenale triestino di Fincantieri.
Ḥaftar non può passarla liscia, non deve passarla liscia. Perché se accadesse, le conseguenze per l’Italia potrebbero essere devastanti. Qualunque bandito di borgata si sentirebbe legittimato a ricattarci nella certezza di non subire alcuna ritorsione. Ci vantiamo tanto del nostro patriottismo, ma orgoglio nazionale non è solo il “Made in Italy”, il formaggio pecorino, la mozzarella di bufala campana, gli abiti dell’alta moda. Orgoglio nazionale è non farsi prendere a calci in faccia dal primo delinquente che incrocia la nostra strada. Giudicateci pure politicamente scorretti, nostalgici della peggiore specie, bestemmiatori della religione del “volemose bene”, ma a noi niente può toglierci dalla testa l’idea che l’unica Libia possibile avrebbe dovuto continuare a essere un’estensione italiana sulla sponda nordafricana. Anche con un fantoccio alla Gheddafi a fare da paravento in un finto Stato indipendente e sovrano. Si obietterà: Gheddafi era un tiranno sanguinario e feroce. E perché, quelli che sono venuti dopo sono meno sanguinari e meno feroci, oltre che ladri e ricattatori? Parafrasando il presidente Usa Franklin Delano Roosevelt, Muʿammar Gheddafi sarà stato pure un gran figlio di puttana, ma era il nostro figlio di puttana. Invece Khalīfa Ḥaftar, cos’è? In attesa di capirlo, è bene che impari la buona creanza.
Aggiornato il 10 luglio 2025 alle ore 10:04