
Il successo dell’intervento militare Usa sui siti nucleari iraniani, deciso da Donald Trump, ha del clamoroso. A dispetto dei patetici tentativi che in queste ore l’internazionale progressista degli anti-trumpiani sta escogitando per sminuire la portata storica dell’iniziativa presa dal presidente statunitense, il mondo è un posto migliore in cui stare. E lo si deve, piaccia o non piaccia, a “cavallo pazzo Donald”. Poco importa se i terrificanti cacciabombardieri B-2 Spirit abbiano distrutto o solo seriamente danneggiato con i loro strike i siti di arricchimento dell’uranio sul suolo iraniano. Ciò che è destinata a fare più danno alla credibilità del regime degli Ayatollah è la bomba di profondità che l’America, faro di libertà nel mondo, ha lanciato al cuore di un Paese stanco di essere guardato come il buco dal quale il demonio minaccia l’umanità; insofferente all’idea di doversi negare alla piena modernità; provato dalle ristrettezze economiche causate dalle sanzioni comminate dall’Occidente per tenere a bada un regime terrorista; frustrato dalla mancanza di libertà non soltanto nella vita quotidiana ma, soprattutto, nella possibilità di autodeterminare l’indirizzo politico per la costruzione del proprio futuro nazionale.
Ciò che è accaduto in questi giorni non ha provocato un immediato cambio di regime, tuttavia ha smosso degli equilibri che fino ad ora apparivano immutabili. La precipitosa fuga della guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, per assicurarsi un nascondiglio sicuro ha avuto, dal punto di vista dell’immagine della solidità del regime, un effetto devastante. Se gli occidentali avessero un po’ più di buonsenso e la piantassero di sentirsi l’ombelico del mondo con le loro beghe da cortile, proverebbero a calarsi nei panni della gente comune che popola l’antica terra degli Arii. Forse capirebbero quale portata epocale abbia avuto la decisione di “cavallo pazzo Donald” di passare all’azione mostrando ai terroristi di Teheran, per facta concludentia, che le regole del gioco le detta il più forte sul campo di battaglia e non chi pratica il ricatto terroristico come mezzo di interlocuzione e confronto nelle relazioni con gli altri Stati. Eppure, gli utili idioti progressisti hanno avuto la sfrontatezza di affermare: “quella contro l’Iran non è la nostra guerra”. Non sarà la loro, ma è senz’altro la nostra. Perché supporre che l’odio sistemico praticato dal regime degli Ayatollah si limitasse a Israele e agli ebrei e non coinvolgesse l’intera civiltà occidentale significa essere degli imbecilli o essere in malafede.
Al riguardo, quando si parla dei progressisti tendiamo a credere che siano vere entrambe le opzioni: imbecilli in malafede. Per disinnescare la minaccia letale costituita dall’Iran occorreva che si producesse un evento che fungesse da innesco di una deflagrazione. L’attacco aereo americano è stato il detonatore che da decenni noi tutti attendevamo. Non che ci aspettassimo un’esplosione immediata e fragorosa che facesse crollare all’istante la complessa impalcatura istituzionale del regime degli Ayatollah, quanto piuttosto una bomba in grado – alla pari delle bunker busters che hanno centrato il sito nucleare di Fordow, posto a una profondità di cento metri dalla superficie – di colpire al cuore del sistema prima di deflagrare.
Ma cosa sappiamo dell’Iran, oltre alle immagini addomesticate delle pubbliche manifestazioni di consenso popolare ai criminali parati a festa da chierici e da guardiani della Rivoluzione? Sappiamo di una popolazione il cui numero stimato al 2024 è di 86 milioni di persone (fonte: censimento Trading Economics). L’Iran è decisamente multietnico. Si stimano: il 51 per cento di persiani, il 24 per cento di azeri, l’8 per cento di gilaki e mazanderani; il 7 per cento di curdi, il 3 per cento di arabi, il 2 per cento di lur, il 2 per cento di baloch, il 2 per cento di turkmeni (fonte: unimondo.org). Il 69,07 per cento della popolazione vive in centri urbani. Secondo uno studio di The Economist Intelligence Unit, datato 2008, oltre i due terzi della popolazione è nata dopo la rivoluzione khomeinista del 1979; inoltre, il tasso di alfabetizzazione è il più alto della regione mediorientale. Si tratta di un dato fondamentale per comprendere le ragioni della spaccatura che attraversa la società civile iraniana.
A un gruppo, sempre più vecchio e sempre più ristretto, che ha vissuto la fase rivoluzionaria e che detiene le leve di comando dello Stato, è seguito in continuità un altro gruppo generazionale che, avendo conosciuto la stagione della guerra con l’Iraq (1980-1988) spinta sull’onda degli stessi ideali che avevano animato la rivoluzione del 1979 è rimasto deluso dalla torsione cleptocratica conosciuta dal regime dopo l’esaurirsi della fiammata rivoluzionaria. La terza fase generazionale, che non ha condiviso nulla dei furori ideologici che hanno animato i loro predecessori, ha tracciato una linea di faglia che la divide dalle precedenti. Sono i giovani del tempo della comunicazione globale attraverso internet a cui il pur oscurantista regime degli Ayatollah non ha mai negato l’accesso. Da dove pensate che le coraggiose donne iraniane abbiano trovato gli spunti giusti per la loro protesta contro le restrizioni imposte dal regime? La rete ha rappresentato un formidabile veicolo di informazioni e di confronto con i modelli occidentali. La conoscenza di un “altrove” ha funzionato da stimolo intellettuale e ideale per l’emersione di nuovi bisogni e di nuove istanze sociali a cui il regime non era e non è in grado di corrispondere.
Ora, la storia insegna che i sistemi di potere, anche quelli più radicati e più oppressivi, non resistono all’impatto con la domanda di cambiamento che sale dalla società civile. Chi governa con l’arma del terrore ha davanti a sé una sola alternativa possibile per sopravvivere: riformarsi dall’interno oppure tentare di fare muro e resistere fino al punto di essere travolto da una sincope di carattere rivoluzionario. Ciò a cui stiamo assistendo in Iran potrebbe essere descritto in termini cinematografici come biforcazione narrativa, un finale da sliding-doors, da porte girevoli, nel senso che entrambe le opzioni sono sul tavolo e la scelta dell’una o dell’altra dipenderà esclusivamente dall’evolversi dei rapporti di forza interni al regime tra l’ala riformista e quella radicale. Non è escluso – in realtà, è auspicabile – che nella dinamica del conflitto tra poteri possa entrare in gioco una forza, al momento silente, che potrebbe fare pendere la bilancia a favore di una parte sull’altra. Al riguardo, sarebbe opportuno osservare con attenzione come si muoverà la componente dell’esercito iraniano – che non va confusa con la forza paramilitare dei Guardiani della Rivoluzione – tradizionalmente più laica e meno condizionata dal fanatismo religioso. Potrebbero essere i militari ha fornire la necessaria copertura all’affermazione dell’ala riformista e al graduale ridimensionamento dei poteri del clero iraniano, oggi ancora assoluti.
Di certo, la definitiva uscita di scena della guida suprema Khamenei favorirebbe notevolmente il percorso di transizione verso uno Stato e una società dialoganti con il resto del mondo. Si tratta di ipotesi, tutte suscettive di smentita. Ma possibili, perché c’è stato Trump e ci sono state le sue bombe a renderle possibili. Bisogna ammettere che stiamo vivendo una fase esaltante della vicenda umana. Probabilmente siamo a un tornante della Storia dove il vecchio ordine lascia il posto al nuovo che, a sua volta, riscopre l’efficacia dell’assioma reaganiano della pace attraverso la forza. Nuovi codici, nuove parole, nuovi ideali, nuovi attori individuali e collettivi dominano il tempo vissuto. Ci siamo mai soffermati a chiederci cosa pensasse quel tal cittadino di Roma che, nell’anno del Signore 476, assisteva alla deposizione del suo imperatore, Romolo Augustolo, per mano del barbaro Odoacre? Si sarà reso conto che un’Era, durata molti secoli di glorie e di vittorie, stava definitivamente tramontando per lasciare il posto a un mondo nuovo? Avrebbe mai immaginato quell’ignaro romano che noi, i posteri, avremmo ricordato quel momento come la fine dell’Impero romano? Probabilmente non ha vissuto niente di tutto questo perché travolto dalle contingenze e dalle inquietudini della sua quotidianità.
Allo stesso modo noi non riusciamo a cogliere la grandezza del tempo presente perché siamo distratti e assordati dallo starnazzare dello schiamazzante volgo progressista che, al cospetto dell’immensità della storia in via di riscrittura, piagnucola e si dispera per quel fa Giorgia Meloni, per quel che dice o non dice Giorgia Meloni, per come si bacia e si abbraccia con Donald Trump Giorgia Meloni, per come veste e per come fa ciao con la mano Giorgia Meloni. Ma perché, cari compagni devoti ammiratori di Hamas e degli antisemiti di tutto il mondo, non andate a giocare in autostrada e ci lasciate tranquilli a vivere il magico istante nel quale l’umanità si rimette in cammino dopo aver sfiorato il precipizio?
Aggiornato il 26 giugno 2025 alle ore 09:33