No Kings? No boomers

Sono finito a Hood River, in Oregon, per il weekend della festa del papà. Un posto incantevole tra montagne e fiume, il paradiso dei kayak e delle Ipa artigianali. Ma tra un’escursione e un panino al salmone, ho inciampato in un presidio anti-Trump dal titolo solenne: “No Kings”. Nessun re. Una piazza contro l’usurpazione del trono. La reincarnazione della resistenza, ma in salsa geriatrica. La scena era quella consueta: baby boomer in pieno revival Sessantotto, reduci di proteste passate che recitano la loro parte, convinti che un cartello possa fermare il fascismo. Uno, tra i più compiaciuti, recitava: “Trump: felon, rapist, con man”. Un altro, ispirato a Mary Poppins: “Super callous, fragile, racist, sexist, Nazi POTUS”. La creatività non manca, la lucidità sì.

Il teorema è noto: Donald Trump è un autocrate. Sta per farsi incoronare re. Bisogna fermarlo ora, prima che sia troppo tardi. Basta portare in piazza milioni di persone, raccontare che è il nuovo Hitler e sperare che l’America si svegli. Peccato che il teorema non regga. Trump è stato eletto. Ha lavorato con il Congresso per il bilancio. La sua politica migratoria, per quanto dura, si fonda sulle leggi esistenti. E quando ha perso le elezioni, ha ceduto il potere. Senza golpe, senza armi, senza corona. Ma il punto non è ciò che Trump è. Il punto è ciò che la sinistra ha bisogno che lui sia. Una minaccia esistenziale. Un incubo necessario. Una distopia per giustificare l’isteria. Il “No Kings” non è una protesta: è un rito. Come i cappelli a forma di vagina nelle prime Women’s March. Come i costumi da “Handmaid’s Tale”, con donne bianche e benestanti che temono di finire schiave del patriarcato. È teatro politico. Non serve a cambiare le cose, ma a consolidare una narrazione.

Poi c’è la strategia. I cortei ufficiali sono “pacifici”, ma c’è sempre un margine di ambiguità. Come a Los Angeles, dove le frange più radicali provocano la polizia sperando nella reazione dura, da film distopico. Nella prima presidenza Trump si è già visto: marcenon violente” con annessi atti di intimidazione contro i suoi sostenitori. Oggi il tema forte è l’immigrazione. Trump promette deportazioni di massa. E la sinistra risponde con lacrime e storytelling: famiglie spezzate, bambini in lacrime, madri coraggiose, la Guardia nazionale. Una guerra dimmagini per affondare i consensi. Ma resta un paradosso. Se Trump fosse davvero un re, non avrebbe bisogno di trattare ogni decreto con i giudici federali. Alcune sue decisioni sono state bloccate nell’arco di poche ore da corti distrettuali. Una volta, un giudice ha impedito perfino di rimuovere contenuti gender dai siti governativi. Altro che tiranno.

C’è, però, un dettaglio più interessante. E si chiama generazione. I Boomer, quelli nati tra il 1946 e il 1964, erano i più convinti. Gridavano alla dittatura come se fossimo nel 1973 in Cile. I giovani, invece, sembravano assistere a uno spettacolo di cui non condividevano né la sceneggiatura né i costumi. In fondo al corteo, un gruppetto di adolescenti sorrideva tenendo in mano due cartelli: “Ban Onions” (vietate le cipolle) e “Ban Scratchy Blankets” (vietate le coperte che graffiano). Satira nel deserto. Non contestavano Trump. Contestavano i manifestanti. I Boomer come oggetto della protesta. Ed è questo il punto più serio. Per 60 anni questa generazione ha raccontato l’America a modo suo. Ha dettato valori, regole, slogan. E adesso, di fronte a un mondo che non controllano più, pretendono di rivivere il passato, come se bastasse un corteo per essere ancora giovani e giusti. Ma non funziona. Trump non è un re. E loro non sono più i ribelli.

L’America ha eletto Trump anche per questo: per dire basta. Basta con le menzogne nobili, con le rivoluzioni di plastica, con l’eterna adolescenza invecchiata male. Sì, nessun re. Ma, se possibile, neanche più bugie.

(*) Tratto da Christopher F. Rufo

Aggiornato il 23 giugno 2025 alle ore 15:15