
L’esito dei cinque referendum segna la fine del primo tempo della legislatura. Ma non garantisce di per sé un’altra legislatura al Governo Meloni. A riguardo, troppo ottimismo, sebbene riservatamente, hanno espresso i partiti di maggioranza. È indubitabile che l’opposizione abbia perso la battaglia. Dal fallimento dei referendum ricava l’amara soddisfazione del numero dei votanti, e basta. Non è stato un uragano e neppure una folata primaverile, ma una bava di vento. Però non tutto è come prima. Per il campo largo, la condizione è peggiorata; per la maggioranza, è migliorata. Tuttavia, per il Governo, sarebbe un errore cullarsi sugli allori della massiccia astensione elettorale. Limitarsi a navigare sul suo abbrivio, potrebbe non bastare.
La situazione geopolitica mondiale è quella che è. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in coerenza con la linea del presidente Sergio Mattarella, hanno tenuto la barra dritta sui capisaldi della politica estera e della politica europea, che è un po’ estera e un po’ interna. Il sostegno incondizionato all’Ucraina, aggredita e martoriata dalla Russia di Vladimir Putin, e la tariffa doganale a trattativa comunitaria sono stati ribaditi più volte e in più sedi. La storica relazione con gli Stati Uniti non è stata intaccata, ma conservata nonostante le ondivaghe posizioni di quel presidente. L’evoluzione di tale situazione è un “lavoro in corso”, da vagliare passo dopo passo, tenendo ben fermo l’obiettivo strategico individuato e prefissato.
Assicurato il quadro estero dell’indirizzo politico, il Governo e la maggioranza devono dedicarsi in modo incisivo alla politica interna, specialmente all’economia, che nonostante certi bagliori, presenta lati oscuri da illuminare con riforme liberalizzatrici, cioè liberali per gli operatori e liberanti per i fattori produttivi, venendo incontro alle richieste degli imprenditori e alle aspettative dei lavoratori. Le agenzie di rating non hanno aggravato il giudizio sul debito pubblico. E questo è un bene. Tuttavia, il debito continua a crescere. E questo non è un bene, specie con una guerra alle porte, che implica ulteriori spese insopprimibili perché primum vivere, e con tassi di sviluppo insoddisfacenti per ridurre significativamente il rapporto Pil/debito pubblico.
Giustamente il Governo mena vanto dell’occupazione che ha raggiunto il livello più alto da decenni. Eppure non dovrebbe tralasciare di considerare le obiezioni molto serie basate sui fatti accertati da istituzioni indipendenti. La produttività non cresce, diminuisce addirittura: 2,5 per cento in meno nel 2023, attesta l’Istat. Ciò implica che gli stipendi non possano crescere, mentre l’inflazione, sebbene minima, ne riduce pure il potere d’acquisto. L’Ocse infatti ha certificato che le retribuzioni reali sono in calo dal 1990! Resta il fatto che i dati sull’occupazione sono distorti dal metodo di rilevazione. Il quadro complessivo sarebbe più aderente alla realtà se, invece di considerare il numero di quanti hanno in essere un contratto di lavoro, venissero computate le ore effettive lavorate dai medesimi, al netto dei tanti e pesanti interventi della cassa integrazione. Il quadro complessivo, meno lusinghiero delle apparenze, beneficia eccezionalmente del Pnrr, la cui massa d’investimenti avrebbe dovuto fin d’ora invertire la tendenza e aumentare strutturalmente la produttività. Se al massimo storico dell’occupazione e con l’apporto straordinario del Pnrr il tasso di crescita dell’Italia rimane prossimo a zero, la causa dovrebbe apparire chiara a chi vuol intenderla.
A parte gl’investimenti, la produttività (dunque la retribuzione) è figlia soprattutto della concorrenza. Nonostante le Autorità preposte e le leggi specifiche per proteggerla e promuoverla, la concorrenza è alquanto imperfetta, impastoiata da centinaia di altre leggi che benintenzionati parlamentari e governanti rovesciano sugli imprenditori, ai quali legano una palla al piede e ingiungono di correre. Invano la Confindustria, per bocca del suo presidente Emanuele Orsini, invoca, è il verbo appropriato, invoca la riduzione della burocrazia, affermando addirittura che “le semplificazioni sarebbero meglio che dieci leggi di bilancio”. Perciò ha inviato alla presidente Meloni un rapporto contenente ben 80 semplificazioni sulle materie più disparate. Semplificazioni che per la quasi totalità sarebbero a costo zero. Purtroppo il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha ammesso che il Governo ne ha accolto solo sette. Inoltre non verrà mai sottolineato abbastanza che la riduzione degli adempimenti burocratici, oltre i benefici diretti sulla produttività, procura benefici indiretti non meno importanti sulla certezza del diritto e quindi, a cascata, sulla generale economicità dell’azione umana, privata e pubblica, oltre che sul miglior funzionamento della giurisdizione.
Poi rimane aperta una grave questione di “giustizia sociale”, intesa non come sostanziale redistribuzione, alla maniera delle sinistre, ma come formale temperanza istituzionale. “La domanda che ci si pone – ha scritto Alberto Brambilla, uno dei veri conoscitori della materia – è la seguente: è sostenibile una situazione in cui il 60 per cento della popolazione consuma servizi, a partire dalla scuola, sanità, assistenza sociale senza pagare nulla? E per quanto tempo può durare questa situazione? È pensabile che i fragili siano la maggioranza della popolazione come fossimo un Paese emergente?” (Corriere della Sera, 31 marzo 2025). Nel 2008 con 73 miliardi di spesa i poveri assoluti erano 2,1 milioni e i relativi 5,7 milioni. Oggi con 165 miliardi di spesa per assistenza a carico della fiscalità generale e un mare di altre agevolazioni Isee, i poveri assoluti e relativi sono rispettivamente 5,7 e 8,7 milioni. Più spendiamo per sovvenire i poveri, più aumenta la povertà.
Mentre tutto il carico fiscale è sulle spalle del 17 per cento dei dichiaranti redditi lordi annui da 35mila euro in su, 159 miliardi (più della spesa sanitaria!) se ne vanno nel gioco d’azzardo. Quando giocano compulsivamente d’azzardo i privati, li chiamiamo ludopatici e li curiamo con i soldi dello Stato. Quando i politici giocano d’azzardo con tasse, spese, debiti, dobbiamo chiamarli amministratori della cosa pubblica?
Il Governo di Giorgia Meloni e la maggioranza di centrodestra hanno tutto il secondo tempo della legislatura per eliminare i principali elementi frenanti lo sviluppo economico, riequilibrare la bilancia dei tributi e delle spese, arieggiare i luoghi chiusi dello Stato, sveltire le lentezze degli apparati, ridare certezze vitali alla società nella politica interna come già fatto nella politica estera.
Aggiornato il 13 giugno 2025 alle ore 09:43