Contro la follia dell’ecologismo ideologico

Il cosiddetto Green deal europeo, innalzato a paradigma assiologico e normativo della contemporaneità giuridico-istituzionale europea, si presenta con le insegne del progresso, della responsabilità intergenerazionale e della salvaguardia della “casa comune”. Tuttavia, dietro la superficie retorica si cela una radicale mutazione ontologica del diritto, un’inversione dei fondamenti che presiedono alla razionalità giuridica classica. In luogo della lex naturalis, principio misuratore della giustizia e fondamento oggettivo della normatività, si afferma un costrutto tecnico-politico che rifiuta l’essere come criterio e assume il divenire, incerto, probabilistico, manipolabile, come misura dell’azione pubblica. L’ambiente, da bene comune ordinato alla persona e al suo bene integrale, diviene ipse origo del diritto, assolutizzato in chiave ecocentrica e l’uomo, da custode responsabile, è ridotto a elemento subordinato di un sistema che lo sovrasta e lo relativizza. Tale concezione, priva di radicamento ontologico, non può che generare una normatività priva di verità, volta a legittimare ogni restrizione in nome di un interesse pubblico vagamente definito, la cui essenza sfugge alla ragione e alla misurabilità.

Il diritto, da espressione di giustizia conforme a natura, si trasforma così in dispositivo funzionale a un progetto di ristrutturazione antropologica, nel quale la persona umana perde la sua signoria creaturale per essere inserita, in modo funzionale e strumentale, in un algoritmo globale di sostenibilità ecologica. La riforma costituzionale introdotta con la Legge numero 1/2022, che ha inciso sugli articoli 9 e 41 della Costituzione, è espressione lampante di tale decostruzione del diritto in senso classico. L’introduzione della tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi “anche nell’interesse delle future generazioni” ha introdotto nel Testo fondamentale del 1948 una categoria indeterminata, indefinita, sganciata da criteri di verità antropologica. Non si tratta, qui, di un’aggiunta tecnica a un sistema già esistente, ma di una mutazione genetica: l’ambiente, da oggetto di una tutela razionale e sussidiaria, diventa il nuovo criterio primo dell’ordinamento, il nuovo summum bonum a cui tutto deve piegarsi. È l’instaurazione di una nuova ideologia, non meno totalizzante di quelle del secolo scorso, poiché fonda la legittimità del potere non più sul riconoscimento della persona come capax legis, bensì sulla necessità di tutelare entità impersonali, prive di razionalità e volontà, come “l’ecosistema”. Il riferimento alle “future generazioni” aggrava, poi, questa deriva. Esso introduce un futuro ipotetico come soggetto di diritti giuridici attuali, violando ogni principio di determinabilità e attualità dell’interesse giuridico, come richiesto dal diritto costituzionale e dalla stessa giurisprudenza delle Corti europee. Si produce così un’eterogenesi dei fini: ciò che si presenta come tutela preventiva, si configura in realtà come autorizzazione permanente a comprimere i diritti fondamentali degli individui presenti.

Il futuro, non conoscibile né rappresentabile, è evocato per giustificare ogni restrizione: l’ecologia, così intesa, diventa l’alibi per la decostruzione del diritto, in funzione di un ethos collettivistico e funzionalista. Da questo punto di vista l’articolo 41, riformato, rende ancor più evidente la torsione. Alla luce della nuova formulazione, l’iniziativa economica privata, già subordinata all’utilità sociale, è ora vincolata anche al rispetto della “salute” e “dell’ambiente”. Tuttavia, né il concetto di salute, già oggetto di abuso semantico in ambito pandemico, né quello di ambiente possiedono una determinazione normativa univoca. Il risultato è una soggezione della libertà economica a criteri di valutazione meramente tecnocratici, affidati a poteri amministrativi e giurisdizionali che sfuggono al controllo democratico. La libertà, così, non è più presupposta e tutelata, ma concessa e condizionata. Si compie il rovesciamento dell’impianto costituzionale: non è più lo Stato a dover giustificare le limitazioni ai diritti: è il cittadino a dover dimostrare la sua conformità a un’ideologia imposta ex lege.

Questa del resto è l’impostazione oramai sempre più diffusa intorno ai diritti fondamentali, i quali sempre più spesso non sono più intesi per ci che sono, cioè il riflesso o la positivizzazione costituzionale dei diritti naturali – cioè quelli superiori e anteriori allo Stato – ma vengono concepiti soltanto come la concessione degli spazi di libertà provvisorie e contingenti che l’ordinamento di volta in volta graziosamente elargisce: la pandemia del Covid-19 è stata in questo uno straordinario banco di prova che ha rappresentato un primo inquietante precedente sulla cui logica adesso tutte le altre emergenze (energetica, ambientale, bellica) vengono similmente regolate. Tutto ciò si pone in evidente contrasto con i principi del diritto naturale classico, secondo cui la legge positiva è vincolante solo in quanto conforme alla legge naturale, ovvero all’ordine intrinseco dell’essere. Ogni norma che contrasti con la giustizia naturale non è legge, ma corruzione della legge. Un ordinamento che assolutizza l’ambiente, subordinando a esso la persona, non è più un ordinamento giusto: è solo un sistema di potere.

Il Green deal, in questa prospettiva, non è la risposta a una crisi ecologica, ma l’innesco di una crisi più radicale: quella della giuridicità in quanto tale. Le implicazioni al livello giuridico-comunitario sono altrettanto gravi. Sebbene la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’articolo 37, imponga la tutela ambientale “conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”, questa clausola non può giustificare uno sbilanciamento sistemico a scapito degli altri diritti. La Corte di giustizia, nella sua giurisprudenza, ha costantemente ribadito la necessità di un bilanciamento equo tra i diritti, mentre l’impostazione del Green deal, vincolante a livello normativo attraverso regolamenti e direttive ad efficacia diretta, ha operato una sostanziale gerarchizzazione assiologica, elevando l’ambiente a metacategoria giuridica onnipervasiva. È la negazione dell’equilibrio dei valori, fondamento dello stesso “mitologico” costituzionalismo multilivello. Il costituzionalismo moderno, già fragile nella sua struttura immanentistica, viene così svuotato del suo contenuto razionale, dissolto nella fluida retorica della sostenibilità.

Senza verità sull’uomo e sul suo fine naturale, ogni diritto è negoziabile, ogni limite oltrepassabile. In questa prospettiva, il diritto cessa di essere orizzonte ordinante e diventa mera funzione dell’amministrazione della crisi permanente. Il Green deal, al netto delle sue premesse idealistiche, si configura come uno strumento di biopotere, in cui la gestione delle risorse ambientali diventa gestione delle esistenze umane. È il ritorno di una politica senza legge, dove la volontà prende il posto della giustizia e l’emergenza permanente, ora ecologica e climatica, giustifica ogni limitazione, spesso irragionevole, dell’ordine costituzionale. Solo un ritorno al diritto naturale, come ordine inscritto nell’essere e riconosciuto dalla ragione, può offrire un criterio per distinguere il lecito dall’illecito, la giustizia dalla prevaricazione, la tutela del creato dalla sua strumentalizzazione ideologica. In assenza di tale fondamento, ogni Green deal sarà, in ultima istanza, un “deal” contro l’uomo.

Aggiornato il 12 giugno 2025 alle ore 09:34