
Quando tra qualche anno rileggeranno la storia Patria, i posteri si ricorderanno di quattro fessi che avevano votato il Jobs act in Parlamento onde poi dire, pochi anni dopo, che faceva schifo e che abbisognava di essere abrogato. Il tutto per il tramite di un referendum sponsorizzato in larga parte da un sindacato che pochi anni prima non si era battuto a dovere per impedire che lo stesso Jobs act fosse approvato. Se è per questo, il suddetto sindacato non si era nemmeno battuto perché non passasse la Legge Fornero, quella che ancor prima aveva dato il colpo di grazia all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Perché? Perché quegli Esecutivi erano “Governi amici” da non disturbare. Oggi invece che a Palazzo Chigi ci sono i nemici, bisogna fargli la fronda facendo passare il concetto che la responsabilità sia delle destre mercatiste e truci.
E quando gli scolari domanderanno alla maestra cosa sarebbe successo se il Jobs act fosse stato abrogato, quest’ultima non senza imbarazzo risponderà che sarebbe ritornata in vigore proprio la Legge Fornero, abbassando da 36 a 24 mesi l’indennizzo in caso di licenziamento. Tra le risate generali qualcuno eccepirà anche qualcosa sul quesito in tema di cittadinanza, domandandosi come sia possibile sottoporre a referendum un tema così delicato sul quale – da ultimo con il Governo giallorosso nel 2018 – parte dei promotori non ha mai avuto la bontà di legiferare anche quando aveva la maggioranza in Parlamento.
Ma il dato peggiore è quello più squisitamente politico. Perché non sfuggirà a nessuno che i promotori stavano giocando una partita diversa da quella referendaria. Da una parte Maurizio Landini che giocava a raggiungere un risultato sopra il 30 per cento per potersi candidare a guidare il campo largo dimostrando di avere più consenso della sinistra e della destra. Dall’altra lo stesso campo largo che, in caso di risultato rotondo avrebbe recapitato il solito “avviso di sfratto” al Governo sorbendosi Landini come effetto collaterale. In caso di batosta non troppo sonora, Elly Schlein & friends avrebbero invece posto finalmente un argine definitivo alle velleità politiche del leader della Cgil. Balliamo intorno a un’affluenza del 30 per cento, la qual cosa equivale ad una sconfitta sonora per tutti i contendenti, a chiara riprova che il popolo sarà anche semplice ma non è stupido. Anzi, ha la memoria sufficientemente lunga per distinguere perfettamente chi cerca di fotterlo.
Adesso, per l’opposizione la strada si fa in salita, lacerata com’è dalle faide interne ed esterne alla coalizione, dall’incapacità di fornire una visione alternativa e dalla frustrazione che gioca sovente il brutto scherzo di spingerla a conati di odio verso una maggioranza che potrebbe stare lì immobile a nutrirsi bellamente di un odio gratuito che non fa altro se non rafforzarla.
Aggiornato il 10 giugno 2025 alle ore 11:19