
Giacca, cravatta, sguardo accattivante, camicia inamidata, faccia sbarbata, da bravo ragazzo senza grilli per la testa. Simone Leoni, venticinquenne neo leader dei Giovani di Forza Italia, per come si presenta di sicuro sarebbe piaciuto a Silvio Berlusconi. Una bella figurina che sta a pennello nello storybook del partito azzurro. Eppure, il giovanotto, in politica, ha un padre putativo che non è il vecchio leone di Arcore (buonanima), ma il benedicente Antonio Tajani, di cui Simone vorrebbe essere clone. Fatto a sua immagine, per portare il “verbo” ultramoderato – e anche un cicinin lib-lab alla Pier Silvio – tra le giovani generazioni. Un obiettivo ambizioso, che non guasta in un partito in cui l’ambizione personale è scritta nel Dna.
Tuttavia, per quel poco che sappiamo dei ragazzi e delle ragazze d’oggi, facciamo fatica a immaginarlo come modello esemplare per le nuove leve. Anche perché, dietro la facciata di giovane di belle speranze che viene folgorato sulla via di Damasco dell’impegno politico, si cela un altro Simone che è fatto di tutt’altra pasta rispetto all’immagine patinata che egli dà di sé. La realtà, che rifugge gli effetti abbacinanti delle foto a colori, nei chiaroscuri del bianco e nero racconta la storia di una costruzione in laboratorio di una carriera politica cominciata in età puberale e mai disturbata da uno scarto trasversale, da un colpo di testa, da un innocente cedimento a una volubilità figlia di una tempesta ormonale. Classe 2000, Simone ha inanellato una sfilza d’incarichi all’interno del partito che non devono avergli dato il tempo, non di farsi una canna (sarebbe troppo), neppure di guardarsi allo specchio: vicecoordinatore di Forza Italia Giovani Roma, coordinatore regionale del Lazio e, dal 2022, responsabile dell’organizzazione nazionale del movimento giovanile forzista. Con un curriculum del genere non bisogna essere veggenti per vaticinare un suo approdo in Parlamento nel 2027, quando si tornerà a votare. A meno che il battesimo del fuoco con la politica adulta non avvenga prima del previsto. Magari a causa di un’elezione anticipata, un fuori programma per un centrodestra che ha perso tanto pelo ma non l’antico vizio dell’autoaffondamento.
Già, perché il discorsetto pronunciato dal palco congressuale dei rampolli forzisti proprio dall’astro ascendente Simone, al netto delle frasi fatte e degli slogan, ha avuto lo sgradevole retrogusto delle parole forzate, suggerite da altri, pensate da suocera perché nuora intendesse. Quel pugno sotto alla cintola, sferrato a un inscalfibile sebbene mai nominato generale Roberto Vannacci – oggi nel politbjuro della Lega salviniana – ha la medesima freschezza morale di un merluzzo scongelato dopo anni di ibernazione in un freezer dimenticato in cantina. Quel gridare “vergogna!” all’indirizzo di un alleato, con un’assertività di giudizio tale da far invidia alla più accanita Elly Schlein, è suonato fasullo più del ruglio di una moneta falsa. E visto che in politica nulla è mai come appare, non è stato un bello spettacolo assistere all’esibizione di un ventriloquo che ad arte ha mosso le labbra della sua marionetta, per pugnalare un alleato a freddo, senza tuttavia mostrare la mano abbrancante la lama.
Non è stato bello ascoltare un ragazzino dare del codardo a un soldato il quale – si possano o meno condividere le idee che propone – ha passato la vita sui teatri di guerra di mezzo mondo. E si è fatto onore. Non è stato elegante insinuare il sospetto che quel tal generale avesse fatto quello che ha fatto, avesse scritto le cose che ha scritto, solo per l’avidità di racimolare qualche soldo fuori sacco. Non è stato onesto riassumere un pensiero legittimo sparando quattro battute a effetto, del tipo: “Persone che invece che essere generali a capo di un’armata del bene verso il prossimo, scelgono di essere generali della codardia e della discordia per mero calcolo politico. Persone che dovrebbero vergognarsi perché pur di avere un voto o vendere un libro dicono che i bambini disabili vanno separati dagli altri, che chi ha la pelle nera non è italiano, che chi è gay non è normale”. Per poi concludere che “per colpa di queste affermazioni, ci sono persone che stanno male, che soffrono, e coetanei che arrivano a togliersi la vita”. Cosa vorrebbe significare? Che se in Italia persone che soffrono un’estrema condizione di disagio giungono alla decisione estrema di negarsi alla vita, lo farebbero perché c’è Vannacci che parla di loro? Se non fosse una mascalzonata, sarebbe banalmente un’affermazione idiota, oltraggiosa verso coloro che rifiutano un’esistenza che non riescono a sopportare.
Anche un cieco si sarebbe accorto che quella roba oscena non era farina del sacco del giovanotto ma del dante causa, Antonio Tajani. Ora, se il capo della nuova Forza Italia, che ha giubilato Silvio Berlusconi e il suo pensiero politico, vuole rompere con la Lega – e con il centrodestra – lo dica apertamente, non mandi in avanscoperta i ragazzini. Tajani intende chiudere con Salvini e mandare a casa Giorgia Meloni? Lo faccia, se ne ha il coraggio. E, soprattutto, lo spieghi al notabilato del suo partito il quale, grazie alla spinta propulsiva della coalizione, ha ottenuto più scranni parlamentari, più posti di potere nel sottobosco ministeriale, più assessorati e presidenze regionali di quanti ne avrebbe spuntato se alle elezioni si fosse presentato in un formato diverso da quello inventato da Berlusconi nel 1994. Tajani vuol fare la fine di Angelino Alfano? Si accomodi, ma si ricordi che il bacino elettorale di Forza Italia è di palato fine. Ribaltoni e congiure di palazzo, finiti a soddisfare la brama di potere della sinistra, non li ha mai amati e ha sempre punito nelle urne chi se ne è fatto mandante o sicario.
Quella che è andata in scena lo scorso sabato al Palazzo dei Congressi dell’Eur è stata una brutta scivolata, che dovrebbe far riflettere la dirigenza del partito forzista. Antonio Tajani farebbe bene a rimediare lo sgarbo di pessimo gusto usato nei confronti di un soldato che ha onorato la Patria nonché di un alleato politico. Avendo bazzicato gli ambienti della Farnesina ben prima di diventarne il capo, Tajani dovrebbe sapere come si fa a sistemare un tale pasticcio: un mazzo di fiori all’indirizzo della signora Vannacci e un biglietto di scuse al generale. D’altro canto, per salvare la faccia può sempre pararsi dietro il comodo pretesto del “sa com’è, sono ragazzi, non ci badi”. Riguardo al giovanotto Simone Leoni non abbiamo suggerimenti da offrirgli: ha dimostrato di saperne abbastanza di come va la vita, soprattutto se si vuole prosperare in certi ambienti. Ma, ugualmente, una cosa sentiamo di dirgli: i nostri vecchi ci hanno insegnato che non è l’abito a fare il monaco. Cosa significa? Che non basta una faccia sbarbata e una camicia inamidata per essere leader di una generazione giusta e consapevole del proprio potenziale, intellettuale e umano. Occorre molto altro. Coraggio politico, capacità di visione, chiarezza di idee, autonomia di giudizio, possesso di un pensiero proprio. Tanto per cominciare.
Aggiornato il 04 giugno 2025 alle ore 09:28