Popolo, populismo, sovranità popolare

L’hanno detto anche filosofi di prima grandezza. Se la storia insegna qualcosa, è che non insegna nulla. Il popolo assilla la democrazia, teorica e politica, fin da quando Erodoto (V secolo a.C.) mise in bocca a tre dignitari persiani (Otane, Megabizo, Dario) la discussione sul logos tripoliticòs: qual è il miglior sistema di governo? Per Dario è la monarchia. Megabizo è favorevole all’oligarchia. Otane confida nel popolo. Tuttavia, il governo di uno solo può degenerare in tirannide. Il governo dei pochi può essere aristocrazia (pochi, ma i migliori) oppure ridursi a semplice oligarchia. Il governo del popolo può finire in vari modi, quando non poggi sull’isonomia (uguaglianza di fronte alla legge), la quale originò la democrazia vera e propria, che sostanzialmente scade in oclocrazia, il deteriore governo delle masse. Erodoto formula così per la prima volta l’anaciclosi, vale a dire il processo circolare di degrado dei regimi politici, che, senza esagerare, sta svolgendosi qui e là anche adesso sotto i nostri occhi.

Il fatto è che, parlando di democrazia, i Greci distinguevano, tra l’altro, l’isonomia ovvero la democrazia propriamente detta (demos) e la plethocrazia, ovvero il governo della moltitudine (plethos). E qui le cose si complicano, come ha scritto Mario Vegetti in un suo aureo libriccino: “Il rapporto tra plethos e demos risulta in effetti anche semanticamente ambiguo, oltre che politicamente problematico. Se per demos si intende la totalità del corpo civico deliberante (i decreti approvati dall’assemblea degli Ateniesi erano appunto promulgati in nome del “popolo”), allora plethos significherà la maggioranza della comunità cittadina legittimata a deliberare. Ben diversa è l’accezione di demos come parte sociale popolare contrapposta all’aristocrazia e ai possidenti. In questo caso, non sarà difficile identificare la moltitudine del popolo con la massa numericamente preponderante dei poveri. Di qui in poi, la democrazia verrà diffusamente identificata con il governo dei poveri” (Chi comanda nella città, Carocci editore, 2017, pagina 23).

Quando i nostri Costituenti scrissero l’articolo 1 della Carta del 1948, la discussione riecheggiò simili concetti: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Amintore Fanfani, tra i promotori dell’articolo, lo illustrò alla perfezione: “Nella nostra formulazione, l’espressione democratica vuole indicare i caratteri tradizionali, i fondamenti di libertà e uguaglianza, senza dei quali non vi è democrazia”. Esatto: libertà e uguaglianza, gli stessi fondamenti della democrazia ateniese del V secolo. D’altra parte, l’Assemblea costituente respinse la formula dei Gruppi socialista e comunista, secondo la quale “L’Italia è una repubblica democratica di lavoratori”. Infatti, sebbene i proponenti e il Gruppo repubblicano avessero dichiarato di non voler dare a tale formula una interpretazione o un significato classista, il Gruppo democristiano, per bocca di Giovanni Gronchi, sottolineò che la parola lavoratori, anche contro la volontà dei proponenti, possedeva un significato classista. In termini erodotei, avrebbe accentuato il plethos a discapito del demos. Vittorio Falzone, Filippo Palermo e Francesco Cosentino, nel loro classico La Costituzione illustrata con i lavori preparatori, a proposito della formula “la sovranità appartiene al popolo” scrivono: “La parola appartiene è riassuntiva di più concetti. Dalla complessa discussione si evince che essa è comprensiva di tre concetti: il possesso (il popolo è sovrano per diritto naturale originario); la proprietà (il popolo si riconosce in senso giuridico titolare della sovranità e ne autodefinisce i modi e le forme di esercizio); l’irrinunciabilità (il popolo non può rinunciare in tutto o in parte ad essere sovrano, a favore di una parte di se stesso o di un uomo)”.

Il populismo, che oggi caratterizza le società, è un indirizzo politico, a prescindere dal regime dove viene praticato, oppure è esso stesso una (nuova?) forma di regime? E, se sì, come dovrebbe essere inquadrato nel logos tripoliticòs? Il populismo è recente. Infatti, né la Treccani, né le sue Appendici registrano la voce “populismo”, che compare soltanto nell’Appendice 1979/1992 e, curiosamente, così conclude: “L’epoca del populismo sembrerebbe finita, sennonché andare al popolo, sentire il popolo, vedere nel popolo la più nobile espressione politica, cercare ed instaurare con esso un rapporto diretto, sono tutte attività che esercitano un forte fascino su molti uomini politici (e intellettuali). I quali, pertanto, fanno rivivere nel loro stile, alcuni aspetti di un populismo mai domo”.

E in effetti il populismo è risorto nel XXI secolo incarnandosi in movimenti politici permeati da una ideologia “caratterizzata dalla credenza nei valori positivi di quell’indifferenziata entità che è il popolo e dall’esistenza o dall’asserzione della presenza di un rapporto diretto (e quasi carismatico) fra leadership e popolo”. L’indifferenziata entità del popolo, nella quale credono i populisti, è contraddetta dalla credenza uguale e contraria, che nutrono perfino fanaticamente. Infatti contrappongono il “vero popolo” (i seguaci) al “non-popolo” (gli avversari), concepito alla stregua di un nemico interno, in carne ed ossa. Secondo il populismo, il legame forte, affettivo ed emotivo, s’instaura direttamente tra il popolo e il leader, senza mediazioni. Paradossalmente, viene istituito con il voto nelle democrazie.

La linea diretta tra leader e popolo, al tempo dei social, è molto più facile da instaurare, per tanti motivi fin troppo evidenti. La tecnologia delle comunicazioni incentiva e, in parte, determina l’affermazione del populismo, che non dà conto a nessuno perché è intrinsecamente autoreferenziale. Molti caratteri del populismo lo fanno assomigliare all’antica oclocrazia ovvero plethocrazia, il che non è proprio un bene per la democrazia liberale, purtroppo.

Aggiornato il 30 maggio 2025 alle ore 09:30