L’industria ha bisogno del Governo

C’è un elefante nella stanza dell’economia italiana che si chiama calo della produzione industriale. Averne contezza è di fondamentale importanza perché un Paese che produce meno di quanto potrebbe, alla lunga è destinato a declinare. La politica – quella seria – ha la responsabilità di bloccare una tale deriva nel solo modo in cui farlo: varare un piano industriale degno di questo nome. Il centrodestra, che è statutariamente schierato dalla parte dei produttori non può e non deve tentennare nell’assumere i provvedimenti legislativi necessari a favorire il rilancio della nostra manifattura. Perché si perde tempo? Il ritardo del Governo ha fatto il gioco delle forze d’opposizione. La sinistra dell’ammucchiata si consente il lusso della demagogia accusando la maggioranza di non fare il bene del Paese. Eppure, non si scomoda a chiarire le proprie posizioni sulla ripresa delle produzioni industriali correlate ai lacci imposti dal Green Deal e dall’ipertrofia regolatoria del Moloch europeo.

È contraria o favorevole? E se sì, a quali condizioni per le imprese? Una forte iniziativa governativa in direzione del sostegno agli investimenti nella manifattura costringerebbe la combriccola della sinistra a pronunciarsi facendo cadere il velo di ipocrisia che avvolge la sua propaganda. E allora ne vedremmo delle belle dalla torre di Babele progressista, tra chi è per più libertà ai produttori nel fare il loro mestiere e chi invece predica la decrescita felice. Comunque, una cosa è certa: il centrodestra deve uscire dall’angolo nel quale l’opposizione l’ha ficcato con la storia dei 27 mesi consecutivi di calo della produzione industriale, che è pressappoco il tempo di vita dell’Esecutivo Meloni. Occorre però rispondere ad alcune domande prima di abbozzare una soluzione che abbia senso logico e determinatezza. Il dato della flessione, sbandierato dall’opposizione, è vero? Sì, lo è.

L’Istat ha certificato che nel 2024 la produzione industriale italiana è calata del 3,5 per cento rispetto al 2023. L’ultimo mese in cui la produzione industriale è cresciuta è stato gennaio 2023. Da allora è stato sempre rilevato il segno meno. È un fenomeno che colpisce solo l’industria italiana? No, assolutamente. Secondo gli indici della produzione industriale forniti da Eurostat, che fissa il benchmark a 100, nel periodo di vigenza del Governo Meloni (da ottobre 2022) l’indice italiano è calato da 98,3 a 91,3 punti ( -7,3 per cento). Nel pari periodo, la produzione industriale tedesca è diminuita più di quella italiana (-10,5 per cento), mentre è cresciuta quella della Spagna (+1,1 per cento); stabile quella della Francia.

Nella classifica europea, l’Italia è nona per il peggiore andamento della produzione industriale. Quali i settori penalizzati? La flessione vi è stata nei comparti dell’automotive, della fabbricazione di mezzi da trasporto, della pelle e accessori, del tessile, dell’abbigliamento, del legno e della lavorazione dei metalli. Ma il decremento si è registrato anche nel farmaceutico, in controtendenza rispetto alle altre realtà europee del settore che, invece, hanno avuto una crescita. La crisi si estende a tutti i settori della produzione industriale? No. Chiariamo innanzitutto che l’indice di misurazione adottato da Eurostat non tiene conto del comparto delle costruzioni. Riguardo alla produzione italiana, i settori economici che chiudono il 2024 con incrementi tendenziali sono l’attività estrattiva (+17,4 per cento) e la fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria (+5,0 per cento). Ma anche le industrie alimentari, delle bevande e del tabacco sono in crescita rispetto all’anno precedente.

Quali le cause della contrazione della produzione? Vari fattori hanno contribuito a determinarla. Proviamo a metterli in fila:

1) Il rallentamento dell’economia globale e l’incertezza dei mercati, causati dall’instabilità geopolitica del momento, hanno avuto come conseguenza immediata una riduzione degli ordinativi industriali;

2) La paventata guerra commerciale tra la Ue e gli Usa, con la minaccia incombente dell’apposizione di dazi da parte della Casa Bianca ai prodotti italiani esportati negli Stati Uniti, ha avuto un impatto negativo sugli investimenti, in particolare nell’area delle imprese a vocazione esportatrice;

3) La bassa domanda di auto a propulsione elettrica e le politicheverdi” europee tendenti a mettere fuori mercato le produzioni tradizionali di autoveicoli a motore endotermico, ne hanno provocato un crollo delle vendite. In Italia la contrazione ha avuto un effetto diretto sulle produzioni degli stabilimenti Stellantis e indiretto con il crollo degli ordinativi alle industrie italiane dell’indotto dell’automotive tedesco;

4) Il sostanziale fallimento della misura di sostegno alle imprese “Transizione 5.0”, che non ha funzionato perché concepita su un meccanismo di accesso ai benefici economici troppo farraginoso e complesso, soprattutto per le piccole imprese e per i tempi ristretti assegnati alla realizzazione di progetti complessi o all’acquisto di macchinari da costruire in conformità alle esigenze specifiche del committente. Un pacchetto da 6,3 miliardi di euro in crediti d’imposta rimasto al momento quasi totalmente inutilizzato.

La responsabilità della flessione della produzione è da attribuire esclusivamente all’inefficacia dell’azione di governo dell’Esecutivo Meloni? Certo che no. Dopo la fase di rimbalzo post-Covid, la produzione industriale è cominciata a calare dal primo semestre del 2022, quando era in carica il Governo di Mario Draghi. Vi è da considerare che Giorgia Meloni ha iniziato il suo mandato dovendo fronteggiare la devastante crisi provocata dall’esplosione della bolletta energetica a causa delle maxi-speculazioni sul costo del gas. Se responsabilità vi è stata da parte del Governo Meloni è di non aver affrontato con la dovuta tempestività e il dovuto coraggio il tema del calo produttivo. Purtuttavia, la situazione non è compromessa e vi è tempo sufficiente per recuperare il ritardo accumulato, a patto però che si imbocchi la strada giusta.

Che fare per risalire la china? Di rado accade di essere in totale sintonia con ciò che dicono in Confindustria. Ma adesso è capitato. Il quadro illustrato dal presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, nel corso dell’Assemblea annuale tenutasi a Bologna, è lucido e va nella giusta direzione. Orsini chiede alla Ue un mercato dei capitali realmente unico e al Governo un piano industriale straordinario da finanziare impegnando 8 miliardi di euro l’anno in tre anni per investimenti produttivi, attingibili dai fondi del Pnrr non utilizzati entro il 2026. Una tale iniezione di risorsa finanziaria consentirebbe di raggiungere, nei tre anni, il target del 2 per cento di crescita del Pil. Contestualmente, secondo Orsini, bisognerebbe aprire un negoziato in Europa per neutralizzare le insostenibili storture delle normative europee, in particolare in materia di transizione ecologica, le quali fanno malissimo a un’economia manifatturiera che genera valore sull’export per 626 miliardi di euro annui.

Giorgia Meloni deve cogliere la palla al balzo e fare uno scatto in avanti a beneficio del mondo delle imprese che – non va dimenticato – sono la spina dorsale della Nazione. Qui la partita non si gioca sui minori profitti delle aziende ma il rischio reale è la deindustrializzazione del Paese. Che può essere un obiettivo dell’ideologia ambientalista, che sogna di vedere gli italiani bucolicamente appagati sebbene economicamente disperati, ma non della destra. Prima però di lanciarsi nel più complicato cimento della sua esperienza di governo, un consiglio appassionato a Giorgia Meloni: si faccia un giro al Ministero delle Imprese e del Made in Italy, e dia un’occhiata per controllare che tutto fili come dovrebbe. Magari non è nulla. Magari, avere la sensazione che da quelle parti ci si sia un po’ incartati è solo una nostra impressione sbagliata. Ma, come si dice, prevenire è meglio che curare.

Aggiornato il 29 maggio 2025 alle ore 09:47