
Prendiamo sempre molto sul serio le analisi del quadro politico proposte da Maurizio Belpietro. Anche quando non collimano totalmente con l’idea che ci siamo fatti del momento che sta attraversando il Paese. Si dà il caso che il direttore de La Verità, nell’editoriale di domenica scorsa dal titolo La grande trappola del voto anticipato, ipotizzi che si stia preparando un trappolone ai danni di Giorgia Meloni e del suo Governo. Kingmaker della defenestrazione da Palazzo Chigi della leader di Fratelli d’Italia sarebbe Carlo Calenda, l’uomo gradito alle élite nostrane ed europee. Lo scopo ultimo della congiura di palazzo sarebbe di impedire alla destra, che ha discrete chances di vittoria alle elezioni politiche nel 2027, di eleggere un presidente della Repubblica “amico” al posto del “partigiano” del progressismo, Sergio Mattarella, ultimo baluardo di difesa della nomenclatura cattocomunista ai vertici delle istituzioni italiane.
La manovra ideata dal “Churchill dei Parioli” (l’ironico appellativo affibbiato a Calenda è di Dagospia) prevede l’addensamento di una forza centrista per mitosi delle cellule madri rispettivamente del centrosinistra e del centrodestra. In pratica, il disegno verticista di Calenda si baserebbe sulla confluenza al centro di una quota di “dem” – presumibilmente l’ala riformista rappresentata dalla “mitica” Pina Picierno – in auspicata uscita dal Partito democratico e dell’intera Forza Italia in ipotizzata rottura con gli alleati della destra. L’operazione sarebbe benedetta dalle principali cancellerie europee, in particolare di Francia e Germania, sulla falsariga del golpe bianco che nel 2011 portò alla defenestrazione di Silvio Berlusconi e all’approdo a Palazzo Chigi del “commissario” Mario Monti. Il processo di destrutturazione delle odierne coalizioni sarebbe preceduto da una fase transitoria, con la nascita di un Governo tecnico di salvezza nazionale guidato dal politico di tutte le stagioni come certi trench double face, Paolo Gentiloni, e tenuto in piedi con gli spilli dall’autorevolezza – forma sostantiva di un pensiero (il nostro) sarcastico – dell’attuale capo dello Stato.
Uno scenario da incubo, non c’è che dire. Tuttavia, Belpietro enuncia un’ipotesi ben argomentata. Perciò, come tutte le ipotesi che abbiano fondamento logico, essa è possibile, financo verosimile. Nondimeno, difetta di realismo, come ammette in chiusura dell’editoriale lo stesso Belpietro. Perché siamo scettici che lo scenario delineato dal direttore de La Verità si materializzi? Semplicemente perché la storia conosce infinite variabili, per la qual cosa non si ripropone mai uguale a prima. La manovra riuscita con il siluramento di Berlusconi, nel 2011, si svolgeva in un contesto complessivo totalmente diverso da quello attuale. Innanzitutto, i mandanti esteri erano di tutt’altro spessore rispetto ai loro attuali epigoni.
La coppia Angela Merkel-Nicolas Sarkozy aveva maggiore presa sull’Europa di quanta ne abbia oggi la combinata Emmanuel Macron-Friedrich Merz. Costoro, messi a confronto con i loro predecessori, appaiono poco più che due sfigati. Berlusconi preoccupava i padroni del vapore europeo per la sua eterodossia rispetto al pensiero unico europeista e per la sintonia con Vladimir Putin. Giorgia Meloni è riuscita, da contestatrice dell’élite europea a intrufolarsi nel cuore del potere eurocratico rendendosi indispensabile nel sostegno politico alla presidente Ursula von der Leyen. Inoltre, lei è tutto fuorché amica del leader russo. Nel 2011, il progetto condotto in porto con l’eliminazione del leader libico Muʿammar Gheddafi mirava al forte ridimensionamento, a favore di Francia e Germania, dell’Italia negli equilibri geopolitici nel Mediterraneo e, più in generale, nel Sud Europa. Oggi, i successori degli attori di un tempo non toccano palla nelle dinamiche di scenario del Nord Africa e del Vicino Oriente.
In compenso, l’Italia ha ripreso slancio anche grazie al Piano Mattei che si sta rivelando un ottimo veicolo di influenza di un Paese manifatturiero (il nostro) su un’area vasta di sottosviluppo che tuttavia possiede significative quote di materie prime energetiche e di metalli preziosi. Nel 2011 a Washington c’era Barack Obama e, soprattutto, Hillary Clinton era alla Segreteria di Stato. Oggi c’è Donald Trump, che nutre nei confronti dei leader francese e tedesco la medesima stima che un romanista nutre per un laziale. Se c’è una cosa che la guerra russo-ucraina ci ha insegnato è che l’Unione europea dei velleitari non può neppure soffiarsi il naso se non riceve il via libera dalla Casa Bianca a tirare fuori il fazzoletto dalla tasca. Sarebbe verosimile la tessitura di una congiura di palazzo, ordita nelle segrete di Bruxelles, contro una Giorgia Meloni notoriamente amica e sodale di Donald Trump?
C’è poi la posizione delle agenzie di rating, il cui giudizio conta. Nel 2011, la Germania faceva il bello e il cattivo tempo sulle piazze finanziarie europee. E non solo. La sua capacità di manovra sui titoli del debito sovrano di altri Paesi era fortissima. Non a caso fu la decisione del maggio/giugno 2011 della Banca centrale tedesca, su input del Governo di Berlino, a immettere sul mercato uno stock di titoli di Stato italiani tale da provocare il panico tra gli investitori e spingere in alto, nel volgere di settimane, lo spread tra i Btp decennali e i Bund, con le conseguenze per il nostro Paese che tutti noi ricordiamo. Oggi è un’altra storia. Le agenzie di rating ci amano. Solo qualche giorno fa, Moody’s, in scia alle altre agenzie, ha confermato a “Baa3” il rating sul debito sovrano dell’Italia, ma ha modificato l’outlook da “stabile” a “positivo”. Un giudizio lusinghiero sui numeri di bilancio, talmente convinto da inchiodare di fatto lo spread Btp/Bund intorno ai 100 punti base (chiusura alle 17,30 di ieri a 101,200).
Con una tale ondata di fiducia verso un Governo che tiene i conti in ordine stimolando l’interesse degli investitori internazionali, è difficile innescare una crisi politica al buio. Il coup d'état calendiano – non dimentichiamolo: lui è l’uomo dei consensi elettorali da prefisso telefonico – dovrebbe fare perno sullo slittamento al centro di Forza Italia. Ora, tutto si può dire di Antonio Tajani e compagni ma non che siano dei fessi votati al suicidio politico. Nei 30 e passa anni di esperienza di centrodestra hanno compreso benissimo che il loro blocco sociale di riferimento, sebbene con tutti i distinguo e gli “ismi” possibili, è di destra. Una destra moderata, riformista, prudentemente laica, prudentemente cattolica, vagamente liberale, ma pur sempre destra. Un bacino elettorale non così fluido da deviare a sinistra. Al contrario, sanzionerebbe pesantemente nelle urne chi si rendesse responsabile di un indesiderato salto della quaglia nel campo avversario.
I precedenti al riguardo non mancano. Nel 2013, l’allora Popolo della Libertà, nonostante il trattamento subìto con il siluramento nel 2011 del Governo di centrodestra e la criminalizzazione giudiziaria del personaggio Silvio Berlusconi, raccolse per la Camera dei deputati un 21,56 per cento di consensi che mutilò il centrosinistra della piena vittoria elettorale. Alla successiva tornata del 2018, dopo la sciagurata decisione di Berlusconi di aderire al Patto del Nazareno con Matteo Renzi; dopo la fuga di una parte degli eletti forzisti, consegnatisi al ruolo di utili idioti dei Governi altrimenti minoritari del centrosinistra (il caso del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano), Forza Italia ottenne il 14 per cento dei voti per la Camera dei deputati. Un crollo che trovava logica spiegazione nello scontento del bacino tradizionale berlusconiano per la condotta ondivaga assunta dal partito azzurro dal 2013 in poi.
Altro elemento di differenziazione dello scenario odierno rispetto al 2011 è dato dalla decisiva circostanza che non vi siano margini di composizione di una maggioranza parlamentare alternativa a sostegno di un Governo tecnico, qualora Forza Italia dovesse aprire la crisi. A meno che Tajani, indotto dalla “moral suasion” di Mattarella, non si acconciasse a fare ammucchiata con Elly Schlein, Giuseppe Conte, Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni, Matteo Renzi e tutto il variopinto caravanserraglio della sinistra di lotta e di governo. Francamente, sarebbe un po’ troppo anche per il campione dei ribaltonisti. A questo punto, la strada obbligata sarebbe il voto anticipato. Ora, la domanda è: con una Meloni che gode di un gradimento stellare presso l’opinione pubblica, in quale formato, se non quello suicidario di un centro molto frondoso ma poco fruttuoso, si dovrebbe collocare Forza Italia dopo aver rotto la coalizione trentennale di centrodestra? Belpietro fa il suo mestiere di seminatore di pulci nelle orecchie dei lettori. E fa bene a invitare tutti noi a stare in guardia.
Ma un sano esercizio di realismo ci impone di mettere le cose al posto giusto. Anche noi temiamo, alla stregua degli orgogliosi Asterix e Obelix, che il cielo ci caschi sulla testa. Non per questo però andiamo in giro con un paiolo di ghisa conficcato sulla testa. Non siamo fan sfegatati di Antonio Tajani e soci, ma insultarne l’intelligenza e la capacità politica a tal punto, anche no. Tajani vale parecchio di più di un Angelino Alfano qualunque.
Aggiornato il 27 maggio 2025 alle ore 09:11