Nuove sanzioni alla Russia: Ue autolesionista

Un T.s.o. Ecco cosa ci vorrebbe per quei geni della lampada che sono i leader europei: un trattamento sanitario obbligatorio. Sulla vicenda dei rapporti con la Russia stanno sbagliando tutto e invece di riscattarsi mediante un ravvedimento operoso, insistono a cacciarsi nei guai. Credono di riuscire a piegare Vladimir Putin insistendo con la politica sanzionatoria. Questo è insano velleitarismo della fantasia applicato alla realtà. Stanno varando il 17° pacchetto di sanzioni e già ne preparano un altro. Come se servisse a qualcosa. Perché sono così ciechi da non vedere che quel genere di pressione non ha avuto alcun effetto significativo su Mosca? Al contrario, ha fatto solo malissimo alle economie europee, in particolare alla nostra. Non capiamo dove porti una tanto spiccata volontà suicidaria. Gli antichi dicevano: errare è umano, perseverare è diabolico. E anche stupido, aggiungiamo noi. Eppure, non sono stati pochi gli economisti che hanno avvertito per tempo i politici occidentali che la politica sanzionatoria invece che una punizione si sarebbe rivelata un’opportunità per l’economia russa. Lo statunitense James K. Galbraith lo ha messo nero su bianco: “nonostante lo shock e i costi per l’economia russa, le sanzioni sono state manifestamente un dono” (J.K. Galbraith, The Gift of Sanctions: An Analisis of Assessments of Russian Economy, 2022-2023, in Institute for New Economy, Thinking Working Paper, 10 aprile 2023, numero 204).

Per non parlare del testo pubblicato anche in Italia dello storico e antropologo francese Emmanuel Todd, La sconfitta dell’Occidente (Fazi editore, 2024). Un’analisi lucida e ragionata della stabilità della società russa che avrebbe dovuto consigliare ai decisori politici europei un diverso approccio strategico nel confronto con Mosca riguardo al conflitto con l’Ucraina. Invece di andare in pellegrinaggio sotto casa di Todd per rendergli grazie per il lavoro svolto, i “nanieuropei se ne sono infischiati ed ecco dove ci stanno portando: sull’orlo del precipizio. Qui non si tratta di lasciarsi prendere la mano dalle simpatie o dalle antipatie per l’autocrate del Cremlino, ma di stare ai fatti. L’assunto di partenza che ha motivato le scriteriate scelte sanzionatorie europee – ora non più americane visto che l’astuto Donald Trump se ne è chiamato fuori – si è poggiato sull’idea errata che l’economia russa, messa sotto pressione dalle sanzioni, sarebbe collassata e, conseguentemente, avrebbe mandato in crisi la leadership putiniana. È accaduto l’esatto contrario. Lo stop alle importazioni dall’Occidente, in reazione alle sanzioni comminate, ha spinto il sistema produttivo russo a rendersi quanto più possibile autosufficiente, in particolare nel settore dell’agroalimentare.

Un esempio, ricavato da libro di Todd che, a sua volta, cita uno studio del 2021 di David Teurtrie, ricercatore associato presso l’Europe Eurasia Research Center (Cree, Parigi), (Le retour de la puissance, Parigi 2021). Scrive Teurtrie: “Nel 2020, le esportazioni agroalimentari russe hanno raggiunto il livello record di 30 miliardi di dollari (in costanza di regime sanzionatorio dal 2014 ndr.), una cifra superiore alle entrate derivanti dalle esportazioni di gas naturale nello stesso anno (26 miliardi). Per la prima volta nella sua storia recente, i risultati del settore agricolo hanno consentito alla Russia di diventare nel 2020 un esportatore di prodotti agricoli: tra il 2013 e il 2020, infatti, le esportazioni agroalimentari russe sono triplicate, mentre le importazioni si sono dimezzate”. Non c’è bisogno di essere fini strateghi militari, anche un caporale di giornata sa che per sconfiggere un nemico in guerra bisogna affamarne la popolazione. Questo non è accaduto con l’applicazione delle sanzioni. La popolazione russa non ha risentito della mancanza dei prodotti occidentali alla quale si era abituata, cionondimeno ha preservato livelli di vita qualitativamente sostenibili e di questo è grata al suo Governo. Perché mai dovrebbe desiderare di abbatterlo? Per fare un favore agli europei? L’agroalimentare è solo un esempio.

Ciò che impressiona è la capacità di adattamento del sistema produttivo russo alle mutate situazioni di contesto. Fino al 2014 la sua manifattura industriale era debole e di scadente qualità e per questo le potenze manifatturiere occidentali hanno avuto buon gioco sul mercato russo. Grazie alle sanzioni, Mosca ha cominciato a forzare la produzione interna, aumentandone gli standard qualitativi e quantitativi, col fantastico risultato per noi europei di vedere messo a rischio il vantaggio competitivo dei nostri prodotti sui mercati asiatici, sudamericani e africani, a causa dell’insorgente concorrenza russa. Di fatto, le sanzioni hanno regalato a Mosca la consapevolezza delle proprie potenzialità manifatturiere, peraltro supportate, ai fini della definizione dei prezzi di mercato, da un bassissimo costo della materia prima energetica di cui il gigante russo dispone in grande abbondanza. Un capolavoro strategico occidentale, non c’è che dire.

E magari fosse finita qui: i leader europei insistono nel dare letture inverosimili della realtà. L’ultima in ordine di tempo è un’idiozia assoluta. Non contenti di aver letteralmente spinto Mosca tra le braccia di Pechino facendo slittare a Est gli equilibri geostrategici globali, oggi i leader europei si consolano dicendo: Mosca andrà in crisi perché, avendo convertito la propria economia in economia di guerra, quando finiranno le ostilità sul campo si troverà a fronteggiare una crisi occupazionale devastante, come accadde in Europa dopo la fine del Primo conflitto mondiale. Se fosse vero, sarebbe una ben magra consolazione. Ma non lo è. Per questo, Putin ha ragione da vendere quando definisce i suoi omologhi europei dei deficienti. La versatilità del modello produttivo russo è tale che non avrà problemi a sostenere una riconversione dal militare al civile, potendo sfruttare le innovazioni tecnologiche sviluppate nella produzione di sistemi d’arma efficienti e avendo a disposizione risorse umane adeguate a guidare i processi di riconversione industriale.

Todd cita un dato sorprendente, che solo l’insipienza dei nostri decisori politici avrebbe potuto ignorare. Nell’ambito dell’alta formazione universitaria, la Russia, nel 2020, ha raggiunto la percentuale del 23,4 per cento degli studenti d’Ingegneria contro il 7,2 per cento degli Stati Uniti d’America – ragione per la quale sono costretti a importare dall’estero gli alti profili professionali adeguati a soddisfare il fabbisogno interno di skills, in particolare da Cina e India – il 18,5 per cento del Giappone, il 24,2 per cento della Germania, il 14,1 per cento della Francia e il 15,6 per cento dell’Italia (fonte: E. Todd, op.cit., pagina 65 – dato Italia ndr.). Se a Bruxelles e nelle principali capitali europee pensano che i russi siano tutti mužik, rozzi buzzurri delle campagne, del tipo degli americani hillbilly degli Appalachi, rimasti allo stato di analfabetismo diffuso dei tempi degli zar, significa che non hanno capito nulla di Russia.

E che la comprensione della realtà non sia affare loro lo dimostra l’attaccamento a un’altra suggestione rivelatasi una topica gigantesca: il sogno della rivolta antiputiniana. Cioè, la convinzione che la classe media russa potesse ribellarsi al potere autocratico, mossa dall’aspirazione a importare il modello di democrazia liberale dall’Occidente. Bisognerebbe conoscere un po’ meglio l’impatto che la strutturazione di classe ha avuto nella Russia post-sovietica. L’attenzione per le condizioni della classe operaia, totem ideologico del periodo comunista, non ha ostacolato la svolta – putiniana – verso il libero mercato, né ha impedito il crollo definitivo dell’economia centralizzata. Ciò ha avuto come conseguenza sul versante politico la sostanziale accettazione del regime putiniano da parte delle classi medio-alte della società. Sebbene un certo disagio verso il regime venga avvertito in alcune frange delle classi colte della “buona società” di San Pietroburgo e di Mosca, la maggioranza dei ceti medi ha mantenuto il tratto antropologico comunitarista che ha caratterizzato il popolo russo da ben prima dell’avvento del comunismo, rendendolo refrattario alle fascinazioni proprie dell’individualismo assoluto, caratteristico del modello liberale di società.

Sul punto, Todd scrive: “In Russia permangono valori comunitari – autoritari ed egualitari – sufficienti affinché sopravviva l’ideale di una nazione compatta e perché riemerga una particolare forma di patriottismo”. Ne consegue che il dato di realtà contro cui vanno a infrangersi le velleità egemoniche europee indichi che, nonostante la guerra, il “Sistema Putin” risulti stabile e in linea con la storia russa. Su tali premesse, che speranze hanno i leader europei di creare, attraverso le politiche sanzionatorie, le condizioni di un ribaltamento dall’interno, in senso democratico-liberale e occidentalista, della verticale di potere che governa il gigante russo? Nessuna.

Aggiornato il 23 maggio 2025 alle ore 09:22