
Leone XIV mostra di essere un “papa sfidante”. E questo ci sta bene, se le sue parole inducono a mettere il dito nella piaga delle storture culturali prodotte dall’egemonia del politicamente corretto. Ci sta bene, se la sfida è a picconare i santuari intellettuali del progressismo finora intoccabili. Ci sta bene, se il pastore di Dio non si limita a denunciare la guerra delle armi da fuoco, ma stigmatizza anche la guerra delle parole. Parole che, come le pietre, fanno male. E talvolta uccidono. In perfetto spirito giubilare attraversiamo la nostra speciale Porta Santa mostrando ciò che è il mondo dei media. L’approccio non può essere celebrativo ma autocritico, nella consapevolezza che nessuno di coloro che lo abitano possa dirsi innocente, possa scagliare la prima pietra. Allora raccontiamocela tutta e non proviamo a deviare il discorso rovesciando la responsabilità per la disinformazione dilagante su quella fogna a cielo aperto che è il mondo dei social. Il chiacchiericcio sulla rete non è il problema centrale. Semmai, attiene all’antropologia interrogarsi del perché l’uomo avverta il bisogno di rovesciare odio sul prossimo.
Non è di oggi e della società dell’innovazione tecnologica il malvezzo a parlar male degli altri. Ricordate la Fama nella mitologia romana? Era un mostro alato con infinti occhi, orecchie e bocche. Una perfetta allegoria della diffamazione: “Dicerie che nascono, si diffondono, acquistano credibilità, non fanno distinzione tra vero e falso, amplificano e distorcono a piacimento i fatti”. I social non hanno fatto altro che amplificare il fenomeno, non crearlo dal nulla. Preoccupiamoci invece della condotta di chi, professionalmente, svolge l’attività, strategica in una società aperta e democratica, di fare informazione. Spiace ammetterlo, ma si fanno scoperte molto poco edificanti nell’osservare quel mondo da vicino, come scoprire che l’informazione giornalistica di questo tempo non sia la casa degli eroi senza macchia che hanno sfidato il potere, qualsiasi potere, per servire la verità. Essa si è fatta casta e strumento al servizio del potere; di poteri più o meno legali, più o meno trasparenti. Non c’è onore nel farsi scudo della sacra memoria di quei colleghi caduti sul campo per fare con onestà e senso del dovere il loro mestiere. E non c’è onore a sfruttare le loro storie per dissimulare un’informazione faziosa, finalizzata a colpire un nemico proprio o dei propri dante causa politici o imprenditoriali.
Quanti i giornalisti che hanno tradito la verità, l’unico dio che avrebbero dovuto servire, per vendere l’anima, in un inconfessabile patto faustiano, all’adorazione idolatrica di un vitello d’oro chiamato “verosimiglianza”? Cosicché, la ricerca della verità si è trasformata in rappresentazione del verosimile sotto mentite spoglie di verità, funzionale all’accreditamento di una tesi, di un’ipotesi, di un “teorema”. Sovente avvalendosi di oscure complicità con altri poteri, pubblici e privati. La locuzione “cortocircuito mediatico-giudiziario”, coniata ai tempi bui di Mani Pulite, vi ricorda qualcosa? A noi 41 suicidi, centinaia di innocenti in carcere, cinque partiti demoliti e uno solo “graziato”, il Partito comunista italiano. Per quella orrenda pagina di storia nazionale non c’erano innocenti, ma solo colpevoli. E i giornalisti del circuito mediatico, salvo qualche mirabile eccezione, non erano più innocenti degli altri. È stata loro la responsabilità di aver dato fiato ai “teoremi” costruiti dai magistrati sulla verosimiglianza di comportamenti apparentemente criminosi. Il peggiore giustizialismo, innervato dal veleno di una morale spiccia e bigotta, è scorso anche nelle penne e nei pc dei giornalisti.
Vero e verosimile, in certa informazione malata di protagonismo, si sono scambiati di posto. E grazie a questo mefitico crossing-over, tante vite di persone perbene, e delle loro ignare famiglie, sono state fatte a pezzi, devastate, umiliate, distrutte. In nome del sacro diritto all’informazione, che nella prassi quotidiana della nazione si è fatto diritto alla diffamazione. Non chiedetelo ai carnefici, domandatelo alle vittime cosa si provi a vedere d’improvviso sbattuta la propria esistenza sulle pagine di un giornale o nelle immagini di un report televisivo. Domandatelo alla professoressa Ilaria Capua, virologa e ricercatrice di fama mondiale nonché deputata per il movimento Lista civica per l’Italia di Mario Monti nella XVII Legislatura, per i due anni di gogna mediatica e giudiziaria che ha subito dopo essere finita in un’inchiesta di un noto settimanale per un presunto traffico di virus. Accusa rivelatasi del tutto infondata. Non li abbiamo scordati i processi mediatici che hanno sbattuto il mostro in prima pagina, salvo poi a scoprire che il soggetto preso a bersaglio tale non fosse, come attestato da inoppugnabili sentenze giudiziarie. Intanto, altre vite macellate. Chi le ha sulla coscienza? Non facciamo gli gnorri, i colpevoli hanno nomi e cognomi, e padroni e padrini che li tutelano e li foraggiano per fare il lavoro sporco.
I giornalisti hanno un ordine professionale al quale rispondere per i comportamenti non in linea con i codici etici che la categoria riconosce e (in teoria) osserva. Una legge dello Stato – la numero 69 del 3 febbraio 1969 – ne regola l’esercizio della professione. Con grande enfasi l’articolo 2 della legge fissa i fondamentali diritti e doveri del giornalista. Al primo capoverso recita: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”. Definizione ribadita, virgola per virgola, nel Testo unico dei doveri del giornalista, in vigore dal 1° gennaio 2021. Quindi, rispetto della verità quale fonte primaria e inderogabile del fare informazione. Mai principio sancito fu più violato, aggirato e deriso.
Senza scomodare Aristotele, la distinzione tra vero e verosimile non è questione di momento: ha una sua profondità filosofica, che delinea due opposti modi di concepire la dinamica del rapporto con l’altro da sé. Il vero implica l’inconfutabilità di un’asserzione e soggiace a una legge di concordanza universale: ciò che è vero lo è ovunque e in qualunque tempo. Il verosimile, invece, è il luogo d’elezione del possibile dove la credibilità è presunta. Per il filosofo bulgaro/francese Cvetan Todorov il verosimile colma il vuoto tra le leggi del linguaggio e quella che avrebbe dovuto esserne la proprietà costitutiva: l’ancoraggio al reale. Invece, il verosimile ha sostituito il vero. Che è un’operazione possibile e ingegnosa se si è a teatro, ma diventa criminogena quando incide nella vita reale di persone in carne e ossa. Certa informazione mediatica è diventata fantasia, arte della costruzione della notizia. Tuttavia, come avverte Luigi Pirandello: “La vita, in quanto vera per definizione, non ha bisogno di essere verosimile, mentre l’Arte ha necessità d’essere verosimile per sembrare vera”.
Ribadiamo: informare non è fare teatro, ma raccontare la verità. Il solo modo con cui le vittime possono provare a difendersi da chi li attacca pubblicamente è la querela per diffamazione a mezzo stampa. La categoria dei giornalisti vorrebbe l’eliminazione di questa norma perché la considera un’arma intimidatoria che i potenti possono utilizzare per limitare o zittire la libertà d’informazione. In parte, tale obiezione risponde al vero. Le liti temerarie sono un problema. Vi sono stati dei casi in cui soggetti potenti presi di mira da inchieste giornalistiche siano ricorsi alla minaccia della denuncia penale per cercare di fermarle. Epperò domande dovrebbero interrogare la coscienza dei singoli operatori e dei responsabili dell’informazione: è immaginabile un sistema sociale nel quale qualcuno possa impunemente diffamare qualcun altro senza subirne le conseguenze? Che fine ha fatto il principio di responsabilità, che è uno dei pilastri dello Stato di diritto? È libertà diffamare? È libertà mentire scientemente nell’uso del mezzo mediatico, sapendo di essere creduti da altri che si fidano di chi fa informazione?
È libertà fare il taglia-e-cuci di spezzoni di verità rendendo una notizia verosimile, quando altro non è che una tesi opinabile, un “teorema” di parte? È libertà divulgare ciò che l’editore, che ci mette i denari, vuole che si dica? Non siamo all’altezza di Giovanni l’evangelista nel credere che la verità renda liberi. Di certo, però, una fedele adesione alla verità nel riportare gli accadimenti, separandoli debitamente dalle opinioni e dai desiderata, restituirebbe dignità e onore a un mestiere che, negli ultimi decenni, ne è stato drammaticamente manchevole.
Aggiornato il 14 maggio 2025 alle ore 11:53