Finché c’è guerra

L’Europa dei benpensanti corre un grande pericolo nel denigrare e ostracizzare personaggi come Donald Trump e Benjamin Netanyahu. Entrambi sono la medicina, non la causa del male di cui soffre il nostro tempo. È possibile che alcune delle scelte compiute da loro non piacciano, appaiano discutibili. Talvolta, financo bizzarre. Tuttavia, ciò dipende da come i loro comportamenti politici vengano osservati e giudicati. Con quali lenti, con quale senso della prospettiva storica, da quale angolazione visuale? È ovvio che se il metro di giudizio è quello delle ideologie nichiliste che dilagano in un Occidente rinunciatario; che predicano la negazione delle proprie radici identitarie/culture a beneficio di un generico quanto confuso universalismo della pace, l’operato di Trump e di Netanyahu non può che essere stigmatizzato e rifiutato in radice. Ma se ci si pone nell’ottica di una palingenesi dei valori costitutivi della nostra civiltà, tutto appare illuminato da una luce diversa, e confortante.

I due stanno ristabilendo un principio di verità che, nel tempo signoreggiato dall’ideologia progressista, sembrava perduto: il motore che muove tutte le dinamiche della storia non è la pace ma la guerra. È il “Polemos”, che Eraclito definisce “padre (πατήρ) di tutte le cose e di tutte re (βασιλεύς)”. Guerra tra uomini, tra gruppi di individui, tra Stati. Che non è leale competizione tra concorrenti, dove sportivamente lo sconfitto stringe la mano al vincitore e si complimenta. La costante che ha accompagnato, orientandolo, lo sviluppo dell’umanità ha fatto perno su quella che Joseph de Maistre definisce: “La terribile legge della guerra che è un capitolo della legge generale che pesa sull’universo” (in J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo, Ed. Rusconi, Milano 1971, pagina 395). Se non prendiamo atto di questa basilare verità, il nostro destino è drammaticamente segnato. Da qualche parte nel mondo, qui e ora, ci sono popoli, élite, classi dirigenti, poteri economici e religiosi che si preparano a combatterci con lo scopo di sconfiggerci e di dominarci.

Quel che dobbiamo capire è che nel nostro tempo storico la categoria concettuale associata alla parola guerra si è molto ampliata. Guerra non è più soltanto quella combattuta militarmente e la conquista dell’egemonia non avviene esclusivamente manu militari né si limita alla forza delle armi. Oggi le guerre sono finanziarie, commerciali, mediatiche, religiose, ideologiche, culturali, tecnologiche, cibernetiche e dei costumi. Tutte, però, tendono a centrare lo stesso obiettivo: conquistare e sottomettere l’anima di un popolo, di una comunità o di una persona. E chi si oppone all’aggressore, con ogni mezzo anche quello più cruento, combatte per la salvezza della propria anima, individuale o collettiva. Che detta così suona in modo assai discorde dalle professioni di fede nell’amore universale che si odono nei luoghi di culto del cattolicesimo post-conciliare.

Ora, a ogni occidentale è consentita una scelta: può accettare o rifiutare la visione che la realtà gli presenta. Ciò che però non può fare è fingere che non esista. Trump e Netanyahu stanno affrontando con coraggio la ridefinizione di una teoria del conflitto aggiornato ai rapporti di forza che sono in campo a livello globale. Dovremmo – noi europei – fare lo stesso, invece di piangerci addosso o, peggio, di inseguire chimere pacifiste. Due fattori concomitanti vanno evidenziati e compresi. Il primo: la politica è espressione positiva e compiuta della guerra, e non viceversa. L’agire politico interviene a suturare i lembi di una ferita rimarginabile e resta inoperoso quando quei lembi non sono in alcun modo rammendabili. Non è facile accettare questa semplice verità, tuttavia la si comprende meglio se si considera l’incidenza decisiva dell’elemento “inimicizia assoluta” che sta alla base del conflitto non componibile.

Trump – per stare ai fatti concreti – lo ha capito a proposito della guerra russo-ucraina e quando afferma che quei due, riferendosi a Vladimir Putin e Volodymyr Zelensì’kyj, si odiano dà, in linguaggio criptato, un’indicazione precisa su come dovrà terminare il conflitto bellico: con una tregua a tempo indeterminato che congeli il sentimento di inimicizia assoluta provato da entrambe le parti e non con un trattato di pace che non riuscirebbe ad annullare quel sentimento. Ugualmente Netanyahu, nella lotta senza quartiere ai terroristi di Hamas ritiene, non a torto, che nulla può garantire la sicurezza futura di Israele che non sia la distruzione totale del nemico irriducibile. Costi quel che costi. Ciò dimostra che lo spazio della politica, in determinate circostanze di confronto, emerge solo in quanto mezzo di superamento di una conflittualità non condizionata da inimicizia assoluta. Ecco dunque che possiamo spingerci a compiere un grosso azzardo nel rovesciare totalmente l’affermazione clausewitziana secondo cui “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. La realtà del nostro tempo ci consegna una verità opposta, epperò sancita all’alba dei tempi: è la politica la continuazione della guerra con altri mezzi.

Il secondo: se tutto è guerra e la politica non è altro che il processo di individuazione del punto di equilibrio temporaneo da raggiungere tra interessi confliggenti e se il principio legittimante della guerra è nell’essenza del concetto di “inimicizia assoluta”, è necessario giungere alla puntuale individuazione di chi sia il “nemico” e chi debba essere considerato “amico”. Torniamo alla categoria del “politico” di Carl Schmitt e alla coppia assiologica antitetica di amico/nemico. Non facciamoci illusioni: non si può stare con tutti e la fratellanza universale è una rifrazione del pensiero utopico che genera un’illusione ottica nell’osservazione del reale. Bisogna scegliere con chi tessere relazioni ordinate al confronto pacifico e costruttivo e, invece, chi contrastare con ogni mezzo perché ostile alla propria visione del mondo, o ai propri interessi personali e collettivi, o ai propri valori identitari. Vale per i massimi sistemi statuali ciò che l’uomo comune è chiamato a fare quotidianamente nel suo microcosmo esistenziale: scegliere da che parte stare nelle interazioni sociali con i membri della sua umanità di prossimità.

Sul piano interno alle relazioni del mondo occidentale, la guerra scatenata dai progressisti contro i nemici di destra si connota per una forma di odio che è disprezzo antropologico dell’altro da sé, inimicizia assoluta. Sarebbe ora che a destra ci si convincesse del fatto che porgere l’altra guancia o fare sforzi per farsi piacere dal nemico, non porta a niente di positivo. Non resta che combattere per non soccombere. Ciò non significa prendersi a pistolettate ma scontrarsi a viso aperto sul piano della società civile, nei molti campi oggetto di conquista egemonica. Dalla cultura, alla morale, agli stili di vita, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Una ridefinizione della teoria del conflitto grazie a Trump e a Netanyahu dovrebbe farci rivalutare la figura del “soldato politico” che l’ideologia del buonismo pacifista ha messo al bando nelle sue rappresentazioni di società umane formalmente perfette, ma dagli occulti destini distopici.

Sebbene la cosa possa far storcere il naso a qualche anima bella che alberga a destra – e ce ne sono – non sarebbe affatto una cattiva idea rimettersi in gioco dopo anni di auto-straniamento dai valori fondativi della destra, a cui colpevolmente ci siamo consegnati. Perché Trump e Netanyahu non sono eterni e prima o poi ci toccherà far da soli per non finire annientati dal nemico.

Aggiornato il 07 maggio 2025 alle ore 14:31