
Un altro 25 aprile, le solite smunte polemiche. Si batte sul tasto usurato della festa che, in teoria, dovrebbe unire tutti ma che, nella realtà, mantiene l’Italia divisa nella memoria. Fiato sprecato: non ci sarà mai una Festa della Liberazione riconosciuta da tutti gli italiani quale espressione suprema dell’unità della Nazione. Non è colpa di qualcuno nello specifico se le cose non riescono a trovare una loro giusta collocazione in un quadro generale pacificato. Ed è perfino banale ridurre la questione a una lite da cortile tra chi, a sinistra, s’intesta l’eredità politica e morale della lotta partigiana al nazifascismo e chi, a destra, si rifiuta di lasciarsi prelevare puntualmente il sangue per la misurazione del tasso di antifascismo raggiunto nella pratica politica. Non tutto può essere oggetto di reductio ad unum; non tutto può essere rivisto con le lenti assolutorie dell’irenismo; non tutto può essere riconciliato, men che meno la memoria dei fatti accaduti. Bisogna lasciare che la variabile indipendente del tempo agisca per quietare gli animi, avendo offuscato il ricordo dei giorni vissuti da “uomini contro”.
Come nessun romano è oggi più arrabbiato con gli abitanti di Benevento per l’umiliante sconfitta inflitta all’esercito di Roma, nel 321 avanti Cristo alle Forche caudine, ad opera dei sanniti comandati da Gaio Ponzio; come nessun cittadino di fede valdese nutre sentimenti di vendetta verso i cattolici e le autorità vaticane per la strage di 2.000 dei loro antenati della notte del 5 giugno 1561; come i meridionali che hanno dimenticato di avercela con i Piemontesi per i campi di concentramento a cui, nel 1861, vennero destinate le decine di migliaia di soldati dell’esercito borbonico catturate durante la conquista del Sud, verrà il giorno in cui nessuno sentirà più di dolersi per il sangue versato a fiumi durante la Guerra civile che ha travolto l’Italia tra 1943 e il 1945. Fino a quel momento, teniamoci le polemiche strumentali per fomentare una divisione che ha ragioni altre e profonde che la giustificano a 80 anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale e dalla sconfitta del fascismo.
E quali sono queste “ragioni altre” che celano tizzoni ardenti sotto la brace della storia? Per i progressisti, il tizzone più rovente da maneggiare attiene alle origini del fascismo che, dallo storiografo Renzo De Felice in poi, sono state collocate a sinistra. E non soltanto per l’elementare constatazione che Benito Mussolini e una significativa quota dell’apparato dirigente del Partito Nazionale Fascista provenissero dalle fila del Partito Socialista, ma perché alcune istanze e parole d’ordine del primo fascismo movimentista richiamavano un’aspirazione a rendersi strumento dell’ingresso delle masse in politica. Ciò in larvata eco a una lettura marxista dell’evoluzione della società in chiave di “progresso” (Barrington Moore). Il fascismo finisce per essere una faccia della medaglia – di cui l’altra è il comunismo – della forma di dittatura che emerge e s’impone in quanto funzionale nella fase cruciale della transizione, agli inizi del Novecento, da una società agraria a una industriale. Non è un caso se, in alcuni Paesi – tra questi l’Ungheria – il fascismo si affermò combattendo una lotta di classe contro i gruppi dominanti (Istvan Déak).
Sotto il profilo ideologico, l’assonanza tra la rivoluzione russa del 1917 e quella fascista può rinvenirsi nello spirito palingenetico che accomuna entrambe le espressioni di sincope rivoluzionaria. Per la rivoluzione comunista russa nei suoi esiti nazionali vale ugualmente l’analisi fornita da Roger Griffit il quale, a proposito del fascismo, sostiene che il suo nucleo mitico, nelle sue varie permutazioni, fosse una forma palingenetica di ultranazionalismo populista (R. Griffin, The Nature of Fascism, Pinter, London, 1991). Ben si comprende il riflesso pavloviano della sinistra che getta l’accusa di continuismo con l’ideologia fascista sulla destra dei nostri giorni per esorcizzare il seppur minimo sospetto di comunione delle origini con un fenomeno storico che, trasportato sul piano della valutazione morale, rappresenta l’incarnazione del male assoluto. Ragione per la quale il simbolismo allegorico del 25 aprile, con il richiamo al sangue versato dei partigiani, assume per i “compagni” una valenza apotropaica a scopo intimamente purificatorio di una colpa avvertita alla stregua di un inconfessabile peccato originale del comunismo, perpetuatosi fino alla rottura del patto di non aggressione “von Ribbentrop-Molotov”, in essere tra la Germania nazista e l’amata (dai comunisti nostrani) Unione sovietica di Joseph Stalin e di Palmiro Togliatti. Ne consegue che dovrà sopravvivere un 25 aprile perché qualcuno, dando del fascista a qualcun altro, possa autoassolversi convincendosi di essere stato sempre dal lato giusto della storia.
Ma se la sinistra ci mette del suo perché le cose non cambino, la destra non fa meglio. Anzi, viene da pensare che neppure le interessi. Perché gode nel sentirsi dare della fascista dal nemico? Certo che no. Perché vive il complesso del capro espiatorio? Si spera di no. La questione è molto complessa e attiene alla storia della componente più significativa della destra che dal Secondo dopoguerra e fino agli anni Novanta del secolo scorso ha raccolto l’eredità ideale del fascismo: il Movimento sociale italiano. L’ostacolo che ha inibito a questa forza politica un’effettiva emancipazione è stato l’ancoraggio a un fascismo ideale che nella realtà non è mai esistito. Esso ha precluso ai suoi sostenitori la possibilità di entrare in reale connessione con le dinamiche evolutive della società. Li ha ingabbiati in uno stato psicologico da continuazione sine die del dopoguerra. Ne ha annichilito il desiderio d’accedere al post-dopoguerra, dove la prima inderogabile condizione sarebbe stata l’accettazione dell’altro-da-sé. Ma uguale ostacolo è stato il tentativo – soffocato in culla quando ci provarono i gruppi della Nuova destra negli anni Settanta – di rifondare un’antropologia culturale allo scopo di delineare e classificare un “tipo ideale”, un paradigma evoluto dallo stereotipo forgiato nel Ventennio, nel quale il popolo della destra del tempo storico della democrazia avrebbe potuto riconoscersi.
Bisogna autocriticamente ammettere che, quella parte della destra che avrebbe potuto tirarsi fuori dal ghetto della memoria auto-discriminante, ha mancato l’appuntamento con la storia. Per affrontare il problema della penetrazione della politica nella società civile, la sinistra ha scoperto il valore di forza traente del concetto di militanza in rapporto causale con l’idea gramsciana di conquista dell’egemonia. La destra invece si è divisa tra spinte ad accreditarsi nei circuiti istituzionali attraverso un partito legittimato dagli altri a stare nel perimetro democratico seppure in posizione marginale, e tendenze delle élite intellettuali a refluire verso la metapolitica agita a un piano trascendente dalla quotidianità delle piccole cose; pronta a riconoscersi ribelle alla maniera jungheriana, sempre sul punto di compiere l’agognato “passaggio al bosco”; oltre il limite di un mitico meridiano zero proiettato su una linea di confine che, purtuttavia, non verrà mai varcata.
Forze di pensiero, prevalentemente giovani, affezionate alla dimensione tragica della loro postura esistenziale, che diventano preda e in qualche modo succube di quelli che un giovane Marco Tarchi aveva definito “miti incapacitanti” da attesa-da-fine-ciclo, da “evoliani” uomini tra le rovine. Disinteressati a farsi comunità nello spirito organicista della Gemeinschaft teorizzata da Ferdinand Tönnies; incapaci di creare miti fondanti, di darsi una nuova mitopoietica, di esprimere nuove liturgie. In una parola, di costruire una antropologia originale nella consapevolezza che “conservare un riferimento di valore è lecito; continuare a muoversi nella rattristante prospettiva della perdita di un riferimento del quale si rimane eternamente e consapevolmente orfani diventa un ostacolo insormontabile alla proiezione nella realtà” (M. Tarchi). Dalla scomparsa del Movimento sociale italiano, sono passati oltre 30 anni. C’è stata di mezzo l’esperienza di Alleanza Nazionale e, successivamente, di Fratelli d’Italia. Tuttavia, né AN né Fratelli d’Italia hanno risolto a pieno il problema della ridefinizione dell’identità della destra, che avrebbe consentito il definitivo disancoramento dal passato. Attualmente, il partito di Giorgia Meloni ha compiuto una coraggiosa virata con l’adesione al conservatorismo. Sebbene il riposizionamento strategico abbia portato buoni frutti alla politica di Fratelli d’Italia, non cogliamo ancora elementi di chiarezza nell’adesione a un’ideologia che ha molteplici declinazioni, affatto diverse tra loro. Fino a quando tutte le caselle del puzzle non saranno tornate al loro posto, toccherà sorbirci la tragicomica commedia da intreccio plautino del 25 aprile. Ovvero: del dimostrami-che-non-sei-fascista, perché se non lo dici allora ci sei, fascista. Che infinita noia!
Aggiornato il 28 aprile 2025 alle ore 09:36