Note critiche sul progressismo cattolico

“La mente del sapiente si dirige a destra, quella dello stolto a sinistra”. Così recita Ecclesiaste (10,2) insegnando non tanto la differenza tra chi si orienta in un senso e chi nell’altro, quanto piuttosto la diversità tra chi si orienta al bene e chi, invece, al male, tra chi si lascia guidare dalla sapienza e chi, invece, si lascia sviare dalla sua stessa stoltezza. Il tema dei rapporti tra Cattolicesimo e progressismo non è certo nuovo, come testimoniano gli studi, gli scritti e il lavoro di autori come Gianfranco Morra, Augusto Del Noce, Marcel De Corte, Josef Pieper, Robert Spaemann, Roger Scruton e tanti altri, ma si è sicuramente riproposto negli ultimi tempi sia a causa di una accelerazione di quei fenomeni di disgregazione antropologica che da anni caratterizzano globalmente la cultura occidentale, sia a causa della recente dipartita di Papa Francesco che – in un modo o nell’altro – ha riaperto il tema del “progresso della Chiesa”, del “futuro del Cattolicesimo”, dei “passi in avanti fatti e di quelli ancora da fare”. Sul punto, quindi, non ci si può esimere dal compiere qualche riflessione, prendendo le mosse, però, dalla prodromica definizione concettuale, sicuramente imperfetta e incompleta, ma comunque inevitabile.

Per progressismo cattolico (o per Cattolicesimo progressista) si deve qui intendere quell’operazione di fusione tra i principi del progressismo politico-ideologico (spesso di matrice socialista) e quelli del Cattolicesimo, superando gli stessi metodi e le stesse finalità ultime di quella giunzione che si è tentata di compiere già a metà del XX secolo attraverso l’esperimento inevitabilmente fallimentare della cosiddetta “Teologia della liberazione” che aveva la pretesa di dare compimento al messaggio cristiano tramite i mezzi violenti della lotta di classe marxista come, tra i molteplici esempi possibili, si evince da opere di autori quali Hans Küng dal significativo titolo Con Cristo e con Marx (2007). Terminata la causa socialista con il crollo del muro di Berlino, è però rimasta viva la scintilla progressista che non intende certamente riproporre i metodi rivoluzionari del socialismo reale, ma che altrettanto ovviamente non intende rinunciare alla pretesa di forgiare il mondo, la realtà e la stessa Chiesa a propria immagine e somiglianza. La teoria di fondo è duplice: da un lato il Cristianesimo deve essere inteso – e con esso il ruolo e la funzione della Chiesa – come uno strumento di ingegneria sociale che consenta di ottenere quei risultati economici e sociali altrimenti non raggiungibili con l’uso di altri mezzi; dall’altro lato, lo stesso Cristianesimo – e ovviamente anche la Chiesa – deve esso stesso sottoporsi di buon grado ai continui e inevitabili aggiornamenti che il progresso esige. Il progressismo cattolico, tuttavia, non si limita a teorizzare soltanto un’eventuale evoluzione delle strutture ecclesiali i cui riti e meccanismi di funzionamento si vorrebbero aggiornati per stare al passo con i tempi, ma pretende, soprattutto, che si apportino modifiche di ordine dottrinale tanto in ambito teologico, per esempio affermando che Dio è donna, o che il peccato originale è solo simbolico, o che si può avere misericordia senza giustizia, quanto in ambito morale attraverso l’accettazione dei canoni morali del mondo secolare, come per esempio la legittimità dell’aborto in casi particolari come lo stupro, o dell’eutanasia per i malati terminali.

Chiarito, seppur in modo quanto mai sintetico, il contenuto del pensiero che caratterizza il progressismo cattolico, si possono adesso effettuare alcune considerazioni di ordine critico poiché l’emergenza e l’urgenza di questi problemi non può essere ignorata sia per motivi di onestà intellettuale, sia per la devota affezione, da parte di chi scrive, alla Chiesa che vive in questi tempi una delle sue maggiori condizioni di crisi, crisi che, per l’appunto, necessita di una riflessione per essere compresa e, si spera, prima o poi risolta. In primo luogo: l’errore di metodo del progressismo cattolico è identico a quello che affliggeva la Teologia della liberazione, cioè intendere il Cristianesimo come strumento sostanziale di istanze e rivendicazioni politiche e di lavorazione della plastica e duttile dimensione sociale. Il Cristianesimo, invece, sebbene produca i suoi effetti anche a livello meta-individuale e collettivo, non è una dottrina politica, non è una teoria economica, e non è nemmeno un sistema sociologico, poiché esso è la via per la salvezza dell’anima. Questo ovviamente non significa che una visione cristiana autenticamente intesa non abbia conseguenze benefiche anche all’interno della dimensione politica, economica e comunitaria, come appunto insegna la dottrina sociale della Chiesa, ma significa soltanto che il Cristianesimo non è riducibile al mero dato di questi suoi effetti benefici.

In secondo luogo: il progressismo cattolico allorquando ritiene che si possa mutare la dimensione dottrinale dimostra tutta la sua specifica ingenuità, e per tre motivi di crescente intensità e gravità: perché equipara la dottrina teologica e morale della Chiesa ad un qualunque programma politico che può subire modifiche e rettifiche secondo l’occorrenza; perché travisa il senso dell’esistenza di una dimensione dottrinale, cioè l’essere una guida certa, razionale e universale per il cristiano; infine, perché pare ignorare del tutto la natura indisponibile di ciò che è il depositum fidei, già riconosciuto da San Paolo (Timoteo 6,20), che consiste di due elementi, cioè la Sacra Scrittura e la tradizione, i quali non possono essere manipolati a piacere proprio come insegna la Costituzione conciliare “Dei verbum”. In terzo luogo: oltre tutto quanto fin qui considerato non ci si può esimere da un rilievo sistemico. Il Cattolicesimo è un culto a cui nessuno può essere costretto ad aderire, come già insegnava San Tommaso d’Aquino, e che non costringe nessuno ad aderirvi forzatamente, tuttavia, sebbene la scelta e l’adesione siano libere e individuali, ciò non significa che la libertà del singolo o del gruppo possa ritenersi talmente espansa da poter modificarne, alterarne o perfino stravolgerne il senso e la sostanza.

Si faccia un esempio chiarificatore: nessuno è obbligato a giocare a calcio, ma chi vuole cimentarsi amatorialmente o professionalmente in questo sport deve accettarne le regole; non si può pretendere di entrare a far parte di una squadra di calcio e magari partecipare a un campionato e modificarne le regole, adottando, per esempio, le regole del basket, senza snaturare e negare il senso del gioco a cui si sta giocando. Analogamente: chiunque intende aderire “per nascita” o per scelta al Cattolicesimo, e che sia un laico o un chierico, dovrebbe essere munito dell’umiltà e dell’intelligenza per comprendere che non si possono modificare le regole del gioco cattolico senza snaturarne struttura e funzione. In altri termini, è il fedele che deve accettare la verità teologica e morale del Cristianesimo e degli insegnamenti della Chiesa, e non devono essere questi ultimi a conformarsi ai capricci più o meno giustificabili del singolo fedele o dei gruppi di fedeli. Il progressismo cattolico, nel momento in cui reputa, professa e agisce come se le regole del gioco potessero essere acconciate secondo le impellenze storiche e sociali del momento, travisa non soltanto la logica costitutiva del Cristianesimo – quella per cui deve essere la creatura a incamminarsi sul sentiero dell’imitatio Christi e non il contrario – ma la logica in quanto tale considerata.

Per quanti le regole teologiche e morali della Chiesa non rispondono alle proprie visioni, filosofie, o stili di vita, è sempre possibile cambiare culto, chiesa o perfino religione, ma occorre l’onestà intellettuale senza condizioni e riconoscere che non si può pretendere di plasmare a propria immagine e somiglianza e secondo le proprie convenienze un intero sistema storico, teologico e morale, neanche ad opera degli stessi uomini di Chiesa come sacerdoti, vescovi, cardinali o pontefici. Il progressismo cattolico, insomma, o è un’illusione o è una menzogna, poiché sostituisce la verità con la prassi, la vocazione universale con l’episodio particolare, la prospettiva teologica con quella storica, la dimensione morale con quella sociale, l’appello divino con il piagnisteo umano, la Chiesa con la società, la religione con la politica, la trascendenza con l’immanenza, e infine perfino Dio stesso con il progresso. Bisognerebbe, invece, tenere sempre ben a mente che come nessuno è costretto a essere cattolico, così ugualmente nessuno può costringere il Cattolicesimo a diventare anti-cattolico. L’operazione condotta dal progressismo cattolico è, dunque, tanto illegittima quanto impraticabile poiché in definitiva esso ribalta la logica del Cattolicesimo medesimo e invece di pretendere che il fedele si adegui all’insegnamento del Cristo pretende che sia l’insegnamento del Cristo a doversi adeguare non soltanto ai cangianti capricci del fedele, ma anche e soprattutto alle mutevoli, contraddittorie e spesso strutturalmente anticristiane contingenze storiche e sociali. In conclusione, allora, occorre riconoscere l’irragionevole e irrazionale superficialità del cosiddetto progressismo cattolico che diventa quindi incompatibile con un’autentica dimensione di vitaetica e teoretica – cattolica, e occorre altresì acquisire la consapevolezza per cui condividere direttamente o indirettamente causa, temi e scopi del progressismo cattolico significa in sostanza disconoscere il primato della parola del Creatore per adottare gli sproloqui della creatura, così da tornare utili e attualissime le parole di John Henry Newman per il quale “gli uomini superficiali si lasciano impressionare dalle parole del mondo e cadono vittime dei suoi stessi sofismi”.

Aggiornato il 28 aprile 2025 alle ore 11:08