
Matteo Salvini l’ha spuntata. Si è ripreso il partito – cosa che negli ultimi tempi sembrava fosse tutt’altro che scontata – in un congresso nazionale che l’ha visto trionfare. Per il “capitano”, il Purgatorio al quale era stato consegnato dopo la sequela di errori compiuti a cominciare dall’infausta estate del 2019 – quella del Papeete – può considerarsi terminato. Nuovamente a capo di un movimento che ha definito la sua identità, affatto diverso dalla Lega bossiana della prima ora. In primo luogo, il sovranismo è stato metabolizzato dall’organizzazione, a tutti i livelli. Soprattutto tra i dirigenti e i quadri di partito del Nord, che hanno accettato l’idea, un tempo impossibile da immaginare, di un federalismo territoriale complementare e gerarchicamente subordinato alle priorità dello Stato nazionale. Una virata ideologica – simbolicamente impersonata dall’adesione al partito del generale-eurodeputato Roberto Vannacci – che colloca stabilmente la Lega in un’area politica di destra, attenta a conciliare le istanze dei ceti medi tradizionali penalizzati dalla globalizzazione con quelle delle classi popolari. L’offerta programmatica leghista si presenta alternativa al moderatismo riformista del campo della destra. Nel contempo, si orienta a contendere al conservatorismo di Fratelli d’Italia spazi di agibilità nel bacino elettorale storicamente appannaggio del Movimento sociale italiano prima e di Alleanza nazionale dopo. Salvini oggi riposiziona il partito su un doppio binario strategico che, in prospettiva, può riaprirgli orizzonti di consenso altrimenti perduti.
Partito di lotta in Europa e di Governo in Italia: una contraddizione in termini, purtuttavia salutare. Occorreva che dall’attuale maggioranza si levasse una voce critica verso lo spirito dirigista della Commissione europea, guidata da Ursula von der Leyen. Non potendo essere Giorgia Meloni a mettersi all’opposizione di Bruxelles per evidenti ragioni di salvaguardia degli interessi nazionali in ambito Ue; con una Forza Italia deberlusconizzata e appiattita in modo imbarazzante sulle posizioni dei popolari della Cdu tedesca, doveva pur udirsi l’eco di un bastian contrario. E Salvini, fiutando l’opportunità offerta dalla congiuntura geopolitica, si è proposto nel ruolo di oppositore al sistema. Un gradito dovere di testimonianza del dissenso, che ha ripagato il leader leghista per una scelta controcorrente compiuta nel 2013, all’atto di assumere la guida di un partito idealmente naufragato. Le traiettorie salviniane per il prossimo quadriennio non divergono da quelle perseguite nella prima fase della Lega 2.0: lotta senza quartiere alla burocrazia comunitaria e alla finanziarizzazione dell’economia; rilancio della vocazione manifatturiera italiana; autonomia differenziata in chiave regionalista; pace fiscale per sostenere la ripresa economica del ceto medio; stretta totale sull’accoglienza degli immigrati illegali; contrasto ai tentativi di sostituzione etnica e all’aggressione religioso-culturale dell’identità nazionale da parte dei seguaci dell’Islam; focalizzazione sulle politiche securitarie per riportare ordine e tranquillità nella vita quotidiana della gente comune. Sul fronte della politica estera, la Lega che esce dal congresso di Firenze è certamente trumpiana, ma nella versione declinata da Elon Musk, il quale ha fissato nella creazione di una zona di libero scambio Europa-Nord America il punto di caduta della battaglia commerciale che il presidente statunitense ha intrapreso con l’innalzamento dei dazi sulle merci esportate negli Usa.
Anche le video-partecipazioni dei principali leader sovranisti continentali – quali Viktor Orbán, Marine Le Pen, Geert Wilders, capo del Partito per la libertà (Pvv) olandese – sono servite a ribadire che la nuova destra dei patrioti europei, di cui la Lega ha la rappresentanza italiana, non è la “riserva indiana” di nostalgici nazionalisti relegatisi ai margini del proprio tempo storico, ma si candida al Governo di un’Unione europea confederale da soggetto politico unitario in crescita tra i popoli dell’Unione europea. Il punto odierno di convergenza delle forze sovraniste è sul rifiuto radicale delle politiche di finanziamento comunitario per il riarmo, in vista della creazione di una difesa comune europea, e sulla fine del sostegno militare all’Ucraina, nell’ottica del ripristino delle relazioni con Mosca. Riguardo ai rapporti interni alla coalizione del centrodestra, dal congresso leghista qualche novità è emersa che merita di essere segnalata. Di là dalla scontata promessa di tenere fede al patto di Governo con gli alleati fino alla scadenza della legislatura e anche oltre, per la successiva, di modo da assicurare al centrodestra un orizzonte di Governo fino al 2032, è stato apprezzabile il tentativo di sottrarre a Forza Italia il diritto d’esclusiva sull’eredità ideale e politica di Silvio Berlusconi. L’accento posto da Salvini “sull’amico Silvio” uomo di pace racchiude un non detto di critica aspra all’attuale leadership forzista che si è palesemente posta a rimorchio dei “cugini” tedeschi del Partito popolare europeo.
Quella foto proiettata sul maxischermo della sala congressuale con un Berlusconi sorridente tra Vladimir Putin e George W. Bush e con Salvini impegnato a scriverne il sottotitolo: “Quello più importante (Berlusconi) è al centro della foto”, reca un potente messaggio ai nostalgici del leone di Arcore: se lui fosse vivo, oggi starebbe più con noi che con i suoi e di certo Forza Italia non sarebbe ciò che è diventata a causa dell’inversione di rotta imposta da Antonio Tajani. Mica roba da poco. Ma ce n’è anche per “l’amica” Giorgia. La manovra qui è stata più sottile, indiretta. A introdurla sono stati i due capigruppo parlamentari del partito, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari. La si riassume in una battuta secca: rivogliamo Matteo Salvini al Viminale. Il “Capitano” si schernisce ma si dichiara disponibile a discuterne con l’attuale inquilino del Viminale, Matteo Piantedosi e con Giorgia Meloni. È ovvio che nessuno, ieri l’altro alla Fortezza da Basso, ha creduto realistica la proposta. Solo un folle potrebbe immaginare l’apertura di una crisi di Governo sulla rivendicazione di una poltrona ministeriale, ancorché di rilevante centralità strategica qual è quella del ministro dell’Interno. E allora, perché sollevare adesso un tale problema alla Meloni? La spiegazione più ovvia è che la leadership leghista si sia voluta dotare di un’arma negoziale da utilizzare al momento della scelta delle candidature alle ormai prossime elezioni regionali. In ballo c’è la spinosissima questione della ricandidatura di Luca Zaia alla guida del Veneto. La Meloni vorrebbe quella poltrona per un suo uomo.
Salvini non può permettersi di perderla perché la defenestrazione di Luca Zaia aprirebbe una crisi devastante interna alla Lega e gli equilibri faticosamente ricomposti, tra il leader e la classe dirigente del partito, tornerebbero drammaticamente in gioco, con esiti imprevedibili. Dunque, la rinuncia a rivendicare per sé il Viminale da offrire come merce di scambio per il via libera a Zaia a candidarsi per il suo quarto mandato alla guida della Regione Veneto. Alla Meloni l’arduo dilemma: andarsi a incagliare con la navicella di Fratelli d’Italia sulle secche della laguna o restare a largo delle sponde venete evitando le insidie di una classe dirigente locale che – a cominciare dal suo campione Luca Zaia – pur aderendo alla Lega non è mai stata pienamente leghista, ma ha sempre fatto squadra e partita a sé? Il “Capitano” è stato rieletto per acclamazione. Un bel finale per una storia politica personale che potrebbe essere giunta ai titoli di coda. Quella profezia buttata lì dallo stesso Salvini in chiusura di discorso: “Sono certo che il prossimo congresso lo affronterò da semplice delegato perché il futuro segretario della Lega è già qui, tra di voi”, ha il sapore agrodolce di un addio alle armi. E quell’acclamazione celebrata a gran voce dalla platea leghista, somiglia tanto all’onore delle armi che si concede al combattente onesto che si prepara a lasciare ad altri la postazione sul campo di battaglia. Sarà così che andrà? Forse. Ma non bisogna dimenticare che una delle due regole che in politica valgono sempre è: mai dire mai. L’altra è: nulla è mai come appare. Approdare alla machiavellica saggezza del Gattopardo, il passo è breve.
Aggiornato il 08 aprile 2025 alle ore 10:06