Quando si frequentava il liceo, anche i meno appassionati allo studio della filosofia ricordavano che Georg Wilhelm Friedrich Hegel – il cui pensiero per altri aspetti era visto come ostacolo insormontabile – aveva coniato la triade tesi-antitesi-sintesi, facendone la chiave di lettura di tutta la realtà. E ciò aveva evidentemente fatto, per dire che pensare la vita umana non è che l’esito di una dialettica continua fra il posizionamento di una tesi (qualunque essa sia in sede politica, estetica, morale), il contro-posizionamento di una antitesi e la risoluzione del loro conflitto in una sintesi superiore che tuttavia non annullava del tutto nessuna delle due, perché di ciascuna manteneva quanto di buono ci fosse da valorizzare. Orbene, il giurista ha sempre fatto tesoro di queste categorie del pensiero, per meglio comprendere come la triade accusa-difesa-giudizio – che ricalca quella hegeliana – non sia che l’enunciazione giuridica di una ineludibile razionalità dei concetti giuridici e, in definitiva, della stessa idea di giustizia. Si vuol, insomma, significare che al posizionamento dell’accusa, nel processo penale, fa da contraltare quello della difesa e che, alla fine, la sintesi sarà operata dal giudizio formulato dal giudice, il quale appunto è chiamato per vocazione a dire il diritto (Ius dicit).

Ecco perché Bulgaro, allievo di Irnerio, insigne giurista della celebre scuola dei glossatori, definiva il processo “actus trium personarum”: per significare che esso vive e si costituisce attraverso la partecipazione di tre diverse soggettività, complementari, ma inevitabilmente distinte. Ed ecco per quale motivo – di stretta razionalità giuridica – accusa, difesa e giudizio non possono mai mescolarsi fra loro, quasi intridendosi, ciascun elemento, delle tracce dell’altro, finendo con lo smarrire pericolosamente la loro più vera identità e perciò vanificando la giustizia. Questo il più autentico fondamento della separazione fra la carriera di pubblico ministero e quella di giudice: non a caso quest’ultimo appellativo viene riservato in modo esclusivo a chi abbia la delicatissima funzione di decidere (che implica sempre la sofferenza di ciò che viene appunto tagliato, reciso), mentre a chi accusi si adatta quello di magistrato.

Quanto affermato trova piena rispondenza lessicale e concettuale in quel “giusto processo” che la Costituzione italiana pretende sia rispettato, in quanto il processo va svolto davanti ad un giudice che sia “terzo e imparziale” (il che significa che non basta essere terzo per garantire la imparzialità). Se il giudice è “terzo”, lo è proprio perché vi sono un “primo” – cioè il pubblico accusatore – e un “secondo” – cioè l’avvocato difensore: se il “terzo” (il giudice) nasce dalla medesima origine – il pubblico concorso – che ha dato vita al “primo” (il pubblico ministero) e se con questo ha in comune l’articolarsi della carriera, gli organi disciplinari e quelli organizzativi (come oggi accade), il giudice si confonde con la pubblica accusa, provocando danni irreparabili alla stessa credibilità della funzione giurisdizionale. Non c’è nulla da fare. Bisogna ammettere che accusa e giudizio sono dimensioni ontologicamente diverse e neppure parzialmente sovrapponibili: mentre l’accusa rappresenta soltanto una parte, il giudizio esprime la totalità. Ma se quanto chiarito fin qui si colloca sul piano concettuale, va notato che militano a favore della separazione fra accusa e giudizio, anche norme vigenti le quali sembrano davvero imbarazzanti nella cornice dello Stato di diritto e che solo quella separazione consentirà di eliminare.

Non molti sanno infatti che un pubblico ministero, in quanto componente del Consiglio giudiziario (articolazione periferica presso la Corte d’Appello del Csm), partecipa col proprio voto a giudicare le richieste (di trasferimento, di promozione, di assegnazione di posti direttivi) avanzate dai giudici. In altre parole, accade che quel pubblico ministero le cui richieste, di mattina, vengono accolte o respinte dal giudice in udienza, poche ore dopo, nel pomeriggio, sieda a comporre un organo che deve giudicare le richieste proprio di quel giudice. Insomma, a causa della unicità delle carriere, il pubblico ministero, di mattina giudicato dal giudice, di pomeriggio ne giudica a sua volta le richieste promuovendole o bocciandole, così divenendo assurdamente giudice del suo giudice: ma non è una cosa seria, diremmo con Luigi Pirandello! Non solo. Le carriere vanno separate anche per motivi di psicologia sociale, che non sono per nulla di secondaria importanza. Cosa sarebbe lecito pensasse uno che attende sia chiamato il processo che lo vede imputato, se vedesse – come a volte accade di vedere – giudice e pubblico ministero a braccetto mentre amabilmente discutono lungo i corridoi del palazzo di giustizia, avvicinandosi al bar dove faranno a gara per offrirsi il caffè? Non occorre continuare per affermare che la separazione delle carriere è ormai doverosa e indifferibile, se si desidera che l’opinione pubblica riconquisti la fiducia nell’amministrazione della giustizia oggi gravemente compromessa. Certo, non basta. Occorre, come prevede la riforma in cantiere, liberare la stragrande maggioranza dei giudici dal giogo delle correnti, vero cancro della magistratura che ne pregiudica dall’interno la reale indipendenza, il che avverrà tramite il sorteggio dei componenti del Csm. Ma di ciò, un’altra volta.

Aggiornato il 31 gennaio 2025 alle ore 10:07