Non c’è pace a Mezzogiorno

Non è la sinistra tutta pace, amore e libertà quella che ha devastato le piazze negli ultimi giorni. Ma, in questa storia, resiste comunque qualcosa di antico. È la stessa vecchia polvere che si alza dalle strade, quando il vento soffia forte e non sai più distinguere i buoni dai cattivi. È quella che respirava lo sceriffo, Will Kane, nel film cult Mezzogiorno di fuoco. Quella che ti fa bruciare gli occhi e ti costringe a socchiuderli, come per vedere meglio, come per capire dove sta andando questa rabbia che non trova pace.

La morte di Ramy è solo l’ultima scintilla. È quel granello di sabbia che spacca l’equilibrio precario tra ordine e caos. Non è solo una questione di giustizia, è qualcosa di più viscerale, è quel senso di impotenza che ti prende lo stomaco e non ti lascia dormire la notte.

Gli scontri sono arrivati puntuali come le stagioni. Prima i sussurri, poi le grida, infine le pietre. Le forze dell’ordine, schierate come in una partita a scacchi dove non si può vincere, hanno fatto quello che dovevano fare. Contenere, respingere, arrestare. È il loro mestiere, quello che Gary Cooper, nei panni dello sceriffo Kane, descriveva con amara lucidità: “Che bella vita! Si rischia la pelle per acciuffare degli assassini, i giurati li mandano assolti, quelli tornano e ti fanno la festa. Sei onesto, resti povero per tutta la vita, e finisci per morire assassinato come un cane in un angolo di strada. E perché? Per niente, per un distintivo”.

La periferia è diventata un far west metropolitano, dove i cassonetti rovesciati sono le nuove barricate e i fumogeni sostituiscono la nebbia del mattino. Quindici agenti feriti, dieci manifestanti medicati, ventitré fermati. Numeri che non raccontano la verità, che non spiegano perché un ragazzo di vent’anni decide di scagliare una bottiglia contro un poliziotto che potrebbe essere suo fratello maggiore.

È facile parlare di ordine pubblico, di procedure, di protocolli. È facile commentare. Ma qui c’è dell’altro. C’è una generazione che non crede più alle promesse e che non vede futuro oltre il cemento dei palazzi popolari. C’è chi indossa una divisa e sa che ogni giorno potrebbe essere quello sbagliato, quello in cui le cose vanno storte.

Come in quel film del 1952 non ci sono eroi in questa storia. Solo uomini e donne che cercano di fare la cosa giusta, anche se non sanno più cosa sia giusto. La rabbia è un cane che si morde la coda, un cerchio che non si spezza, una ferita che non guarisce. Volano accuse reciproche. Ma chi tra le forze dell’ordine è chiamato a far rispettare la legge c’è poco da chiacchierare. Solo quei segnali in loro supporto che arrivano da destra fanno tirare il fiato.

Intanto i residenti delle zone messe a ferro e fuoco guardano dalle finestre, come spettatori di un teatro dell’assurdo. Qualcuno scuote la testa, qualcun altro chiude le persiane. Altri girano video tagliati per i social. La vita continuerà domani come sempre. Però qualcosa si è rotto ancora una volta. Come in quel vecchio film, dove lo sceriffo alla fine getta il distintivo nella polvere.

Non c’è un mezzogiorno di fuoco che possa risolvere questa storia. Non c’è un duello finale che possa mettere la parola fine. C’è solo il tempo che passa, le ferite che si rimarginano, e quella polvere antica che continua ad alzarsi quando il vento sferza il selciato. E noi, tutti noi, continuiamo a socchiudere gli occhi, sperando di vedere meglio. Sperando di capire. Ma forse non c’è niente da capire. C’è solo da vivere, con questo bisogno di giustizia che non trova pace.

Aggiornato il 24 gennaio 2025 alle ore 10:24