Donald Trump fa sul serio. A pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca ha imposto, a suon di decreti presidenziali, la svolta promessa agli elettori per riportare l’America al centro dello scenario globale. Ma se Trump fa Trump, gli interlocutori europei cosa fanno per rispondere alla sua paventata assertività egemonica? Si preoccupano. E fanno bene, perché nell’orizzonte politico-strategico del neo presidente Usa un’Europa unita con la quale Washington dovrebbe dialogare non è contemplata. Ciò accade perché è Trump il cattivo o, semplicemente, perché un’Europa unita non esiste e quella vista finora è stata solo un simulacro di pie intenzioni destinate a nascondere, mediante artificiosi costrutti giuridico-burocratici, la volontà di potenza di qualche Stato continentale? A tale domanda non occorre rispondere: i fatti parlano per noi. Certo, non è stato sempre così. L’Europa dei padri fondatori era un’idea nobile e lungimirante che però si è scontrata con una realtà orientata in tutt’altra direzione. L’Unione di oggi non ha nulla a che fare con il sogno europeista degli anni Cinquanta-Sessanta. Ma neanche con la sua involuzione – nella stagione merkeliana – in potenza economica “germanocentrica”. L’Europa dei tavoli da gioco con le carte truccate ha fatto il suo tempo. Il tempo nel quale Berlino imponeva ai partner dell’Unione condizioni e posture nelle relazioni internazionali che la Germania per prima non avrebbe rispettato, è miseramente tramontato. La locomotiva tedesca sta perdendo velocità e, soprattutto, forza traente rispetto a quelle economie continentali che, in nome di un non originalissimo piano strategico di lungo termine, Berlino avrebbe voluto tenere legate a sé in una sorta di dipendenza, funzionale al proprio espansionismo industriale. L’avvento del nuovo Trump non è la causa di tale regressione nella Vecchia Europa, come il becchino che interra la salma al cimitero non ha la responsabilità di averne causato la morte. Nondimeno, vi è un’abitudine consolidata a ricercare, nel racconto di una crisi di portata storica, la variabile accidentale che l’abbia indotta. O, più propriamente, il rinvenimento della scintilla che abbia innescato la deflagrazione.
Per intenderci: il principio della fine per Napoleone? L’incendio di Mosca. Lo scoppio della Prima guerra mondiale? L’attentato di Sarajevo alla vita dell’arciduca d’Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando. Il crollo della potenza bellica nazista? La sconfitta nell’assedio di Stalingrado. Il sogno infranto dell’Europa a guida franco-tedesca? Lo scoppio della guerra russo-ucraina. La farsa dell’Europa unita si è conclusa nel momento in cui lo scontro bellico ha messo a nudo la verità sui rapporti di forza in campo. Il consesso comunitario dell’Ue ha dovuto prendere atto che senza la potenza finanziaria e militare degli Stati Uniti l’Occidente delle democrazie liberali non va da nessuna parte; che l’Europa da sola non è in grado di proteggere nessuno – Ucraina in primis – dall’aggressione di qualcun altro. Ma ha anche scoperto che la narrazione di un gigante russo dai piedi di argilla e pronto a sgretolarsi al cospetto della durezza sanzionatoria occidentale sia stata un pericoloso abbacinamento nella misurazione del senso del reale. Un sogno perverso al cui risveglio la Vecchia Europa si sarebbe ritrovata più povera, più debole, più divisa e più ininfluente di quanto i suoi mediocri leader avessero mai immaginato. Donald Trump ha avvisato Vladimir Putin che la guerra deve cessare al più presto.
Accadrà, ma non subito. Sarà un negoziato durissimo, ma di una cosa si può essere certi: sarà un confronto a due, tra Washington e Mosca. Tutte le capitali disseminate lungo la via che dalle sponde del Potomac giunge a quelle della Moscova, non metteranno becco. Verranno sì informate dal Dipartimento di Stato Usa sui progressi del negoziato, ma la loro voce – che si levi dall’Eliseo o dalla Bundeskanzleramt, figurarsi poi da Palazzo Berlaymont sede della Commissione europea a Bruxelles – non avrà alcun peso determinante. D’altro canto, non sarà stato certo un caso se Trump, nel discorso d’insediamento, non abbia mai pronunciato la parola “Occidente”. Il multipolarismo che il capo della Casa Bianca ha in mente è il rapporto duro, virile, ma proficuo con i pochi player globali che la sua Amministrazione riconosce. E tra questi non c’è l’Europa quale soggetto super-statuale unitario. Servirebbe un barlume di lucidità per darci un taglio con l’insopportabile sicumera dei vari Emmanuel Macron e Olaf Scholz o comunque si chiamino i nani dell’allegra compagnia europea, del tutto simile alla fastidiosa supponenza di certi nobili decaduti i quali, benché ridotti con le pezze al sedere, continuano a darsi arie da grandeur.
La verità è che l’economia europea è a pezzi e lo spettro di una nuova ondata di stagflazione è dietro l’angolo. I prezzi dell’energia hanno ripreso a salire. I futures del Wti sono cresciuti del 17 per cento mentre quelli del Brent del 14 per cento dall’inizio di dicembre, toccando rispettivamente le soglie di 78 e 80 dollari al barile. La scorsa settimana al Nymex, i futures del gas naturale hanno raggiunto i 4,37 dollari (4,280 euro) per milione di unità termiche britanniche (MMBtu) toccando il livello più alto dal dicembre 2022. A provocare il rialzo del costo del gas c’entra l’esplosione della domanda a seguito dell’ondata di freddo che ha colpito l’emisfero nord, ma ha inciso pesantemente anche l’inasprimento delle sanzioni imposto, poco prima di terminare il mandato presidenziale, da Joe Biden alla Russia sull’esportazione del suo gas. La previsione più probabile è che l’aumento dei prezzi dell’energia spingerà l’inflazione nell’area dell’euro, imponendo le inevitabili manovre di contrazione monetaria e di risalita del costo del denaro che la Banca centrale europea si precipiterà a varare. Ora, lo scorso novembre gli analisti di S&P Global avevano previsto una crescita del Pil dell’eurozona dello 0,8 per cento per il 2024 e dell’1,2 nel 2025. Con il rischio della ripresa inflazionistica, tale pur contenuta previsione salta.
Per soprammercato, c’è la grana dell’aumento delle spese militari che Donald Trump imporrà a tutti i Paesi membri della Nato. Non è roba da poco e peserà in modo significativo sui bilanci dei singoli Stati. L’antidoto a questo scenario fortemente compromesso per le ambizioni dell’Europa unita vi sarebbe. Ed è quello a cui hanno accennato nei loro interventi al World Economic Forum in corso a Davos sia Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, sia Christine Lagarde, governatore della Bce. Entrambe hanno proposto di cogliere dalla vittoria di Trump negli Stati Uniti d’America l’opportunità per rafforzare il processo d’integrazione europea in vista della costruzione di un polo d’influenza economico-strategica che possa reggere la sfida competitiva con gli altri player mondiali. Come avrebbe detto quel volpone impenitente di Charles de Gaulle: vaste programme. Noi, più prosaicamente, chiediamo alle signore della politica europea dov’è che danno questo avvincente fantasy. Ci dicano in quale sala cinematografica verrà proiettato, perché non mancheremo di esserne encomiastici spettatori.
Aggiornato il 24 gennaio 2025 alle ore 11:21