“Non voler sapere chi l’ha detto, ma poni mente a ciò ch’è detto”: così si legge nel primo libro della Imitatio Christi attribuita a Tommaso da Kempis, per sottolineare la lontananza tra la verità e il principio d’autorità e l’intimo e irrinunciabile legame tra la verità e il principio di ragione.
La saggezza cristiana ha sempre indicato questa via, oggi tradita non soltanto dal mondo secolarizzato e tecnologico che accetta soltanto il principio d’autorità senza spazio per i dubbi e la libertà di pensiero e di coscienza, ma dallo stesso mondo cattolico, come comprovano le strambe critiche pubblicate su Avvenire lo scorso 8 gennaio 2025 contro l’annuncio di Mark Zuckerberg di voler abolire il sistema del cosiddetto fact-checking sulle piattaforme social di Meta (cioè Facebook e Instagram).
Prima di effettuare alcune riflessioni, occorre tenere a mente alcune circostanze inderogabili.
In primo luogo: lo stesso Zuckerberg ha ammesso pubblicamente i propri errori durante la gestione del fact-checking in periodo pandemico, rivelando non soltanto che non tutto ciò che è stato spacciato per scientifico era realmente scientifico, ma, ancor peggio, di avere subito pressioni politiche dall’amministrazione Biden sulla censura da esercitare sui contenuti social, come del resto in Italia molti – come per esempio Mario Monti – hanno esplicitamente auspicato una minore democrazia nella comunicazione relativa alla gestione pandemica.
In secondo luogo: lo scenario culturale e intellettuale è del tutto sconfortante dato che, secondo le rilevazioni dell’Ocse, circa un terzo degli italiani adulti – anche titolati e laureati – sarebbe un analfabeta funzionale cioè non in grado di leggere e comprendere testi complessi, situazione che, con tutta evidenza, certifica il totale fallimento del sistema scolastico e universitario italiano.
Che un terzo della popolazione non sia in grado di capire nulla – nonostante i titoli di studi acquisiti – non è certo un argomento a favore del fact-checking, ma ad esso contrario, poiché non soltanto gli stessi fact-checkers potrebbero essere ricompresi in questa ampia fetta della popolazione, ma anche e soprattutto perché la vera libertà e la vera cultura non sono riducibili al nozionismo empirico ed episodico in cui per lo più consiste l’attività del fact-checking.
In terzo luogo: il sistema del fact-checking sui social è entrato in vigore durante la gestione pandemica, periodo oscuro dell’umanità in cui, in nome dell’emergenza sanitaria, sono stati brutalmente erosi e violati i principi fondamentali e costitutivi dello Stato di diritto e della democrazia, dovendosi quindi osservare che tale sistema di controllo dovrebbe essere un’eccezione e non la regola come invece più o meno apertamente sperano i suoi nostalgici.
Ciò considerato alcune osservazioni paiono inevitabili.
In primo luogo, emerge il paradosso schizofrenico: mentre in Occidente si criticano le grandi tirannie orientali come la Cina o la Corea del Nord perché censurano internet e le piattaforme social i contenuti dei quali divergono dall’ortodossia delle loro ideologie, proprio in Occidente ci si auspica che il fact-checking eserciti una analoga forma di censura, per esempio nel caso in cui siano espresse opinioni divergenti dalla dominante cultura woke, o da ciò che in quel momento si proclama come verità scientifica, o da qualsivoglia altra forma di ortodossia più o meno proclamata i qualsiasi materia (sessualità, geopolitica, sanità, ecc).
Delle due l’una: o la censura è sempre legittima, quella occidentale, come quella orientale, o non lo è mai in virtù del supremo valore universale del diritto alla libertà di pensiero e di parola.
Il fact-checking, piaccia o meno, è una forma di censura, ma peggio della censura, poiché mentre storicamente la facoltà di censura è sempre stata una prerogativa del potere pubblico, con il fact-checking questo potere diventa privato, anche se il privato non può ontologicamente godere dello stesso potere esercitato da una istituzione pubblica.
Il fact-checking peraltro ripropone l’antico e mai risolto problema condensato nel noto quesito: chi controlla i controllori? Chi garantisce che la censura operata dai fact-checkers sia corretta nei modi e giusta nel merito? Lo assicurano gli stessi fact-checkers in modo autoreferenziale? Ma l’esercizio autoreferenziale del potere e del controllo sul potere non è l’esatto opposto dello Stato di diritto e della democrazia?
L’esperienza diretta di chi scrive è paradigmatica dato che il sottoscritto – nel 2022 – è stato censurato per un intero trimestre da Facebook il quale ha scambiato la fotografia di Gabriele D’Annunzio in tenuta da aviatore del 1918 per una ostentazione di simboli legati al nazi-fascismo, e il reclamo è stato addirittura respinto!
In secondo luogo: bisognerebbe chiedersi quale sia lo scopo sostanziale dell’esistenza del fact-checking: correggere gli errori o forgiare il pensiero? Nel primo caso l’operazione potrebbe essere legittima, almeno fin quando non intacca con sanzioni digitali o di altra natura – come la sospensione dalle piattaforme social – la possibilità di esprimere il proprio pensiero; nel secondo caso, evidentemente, sarebbe sempre illegittima.
Occorre ammettere, però, che i fact-checkers – sia nel modo di autolegittimarsi, sia nel modo di operare, sia nel furore quasi messianico che spesso anima loro e i di questi sostenitori – assumono sempre più spesso le sembianze di quegli “ingegneri di anime”, tanto cari a Stalin e così brillantemente denunciati da Frank Westerman nell’omonimo volume, che non intendono soltanto correggere gli errori, ma plasmare il pensiero altrui a propria immagine e somiglianza dimenticando che si può correggere l’errore, ma non si può negare la libertà dell’errante di errare in quanto l’errore costituisce una delle cifre costitutive della natura umana.
In terzo luogo: l’intero sistema del fact-checking non tiene conto della realtà, cioè del grado di certezza della verità. Se da un lato è bene abbandonare ogni prospettiva relativistica o nichilistica secondo cui ciascuno ha la propria verità o la verità non esiste, è anche doveroso ammettere che ci sono verità e verità.
Le verità di ordine metafisico e morale, per esempio, sono indisponibili e universali: due più due (verità metafisica per eccellenza) fa e farà sempre quattro; l’omicidio volontario è sempre un male in sé (verità morale per definizione) e per questo è punito sempre e ovunque in tutte le epoche e culture poiché l’azione omicidiaria rompe il vincolo di socialità che caratterizza l’essere umano.
Le verità scientifiche, storiche ed empiriche, invece, sono sempre provvisorie e non possono essere certificate immutabilmente.
Relativamente a quelle scientifiche, infatti, occorre sempre tener presente che in tanto ci si troverà dinnanzi ad una verità scientifica in quanto questa può non soltanto essere messa in discussione, ma addirittura essere contestata e perfino falsificata. Ritenere la verità scientifica come eternamente valida e incontestabile significa non aver colto la reale essenza della scienza e della verità scientifica.
La verità è scientifica se può essere messa in discussione, se ammette di essere contestata e smentita, addirittura se viene ribaltata: altrimenti non è una verità scientifica.
Il fact-checking in ambito scientifico, dunque, nega e viola lo statuto epistemologico della stessa scienza, dando l’illusione di certezze in un ambito – quale è quello scientifico – in cui non ci sono e non ci possono o devono essere certezze.
È proprio in questo ambito che in genere i fact-checkers e il loro sostenitori dimostrano di essere analfabeti funzionali!
In quarto luogo: il sistema del fact-checking applicato alle piattaforme social trascura la reale essenza di tali piattaforme, cioè l’essere un luogo di discussione virtuale, come un qualunque salotto privato.
Chi scrive potrebbe invitare cinquecento o cinquemila propri amici e conoscenti a discutere in casa propria, come sulla propria pagina Facebook, di qualsiasi argomento senza che nessuno sia legittimato a limitare la libertà di parola e di pensiero di chi partecipa alla discussione.
Le piattaforme social non sono testate giornalistiche e le pagine dei singoli utenti privati – per quanto successo possano riscuotere in termini di followers – non svolgono la funzione di informazione dei grandi mezzi di comunicazione di massa su cui, invece, grava l’onere della veridicità delle notizie riportate.
In quinto luogo: esiste e persiste – piaccia o meno – il diritto all’errore, cioè il diritto a sostenere una tesi per quanto erronea, tanto che non possono essere i mezzi coercitivi del fact-checking a correggere l’erroneità di una tesi, poiché questa è la funzione propria e tipica del pensiero critico che in quanto tale è sempre libero per definizione e ben più ampio di quanto comunemente si ritiene, cioè non riducibile neanche ai mezzi e agli scopi che i fact-checkers si sono riproposti.
In conclusione: il fact-checking è più un male che un bene, specialmente quando esso è teso non già a correggere gli errori in cui tutti gli umani possono incorrere, ma a rendere uniforme e unico il pensiero sterilizzando la capacità di pensare: proprio in tal caso vengono alla mente le parole di Walter Lippmann secondo il quale “quando tutti pensano allo stesso modo, nessuno pensa davvero”, come, del resto, dimostra il pensiero unico, come tale incapace di pensare, a favore del fact-checking.
Aggiornato il 09 gennaio 2025 alle ore 11:37