Giorgia Meloni e la buccia di banana da dribblare

Ma roba da matti. Giorgia Meloni vola in Florida per incontrare il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump (nella pienezza delle funzioni dal prossimo 20 gennaio) e dalle opposizioni c’è chi frigna per l’iniziativa del premier. E cosa avrebbe dovuto fare? Con i pericoli che l’Italia corre in questo 2025 – a cominciare dal buon esito della soluzione del caso Cecilia Sala, appena raggiunto come specificato in una nota di Palazzo Chigi – Giorgia Meloni ha fatto la cosa più sensata per un capo di Governo: cercare di pararsi le spalle con l’uomo più potente del mondo e principale alleato dell’Italia. Eppure, ai geni della sinistra l’iniziativa è andata di traverso e, visto che non possono proferire parola su ciò che serva per liberare la nostra connazionale, la buttano in caciara insinuando che la visita americana a niente altro sarebbe servita che a spalancare la cassaforte pubblica agli affari italiani del braccio destro di Trump: il “mostro” Elon Musk.

Udite! Udite! Meloni, a sentire l’opposizione in Italia, avrebbe svenduto la sicurezza nazionale al miliardario sudafricano naturalizzato statunitense con cittadinanza canadese. La società SpaceX, di sua proprietà, avrebbe ottenuto da Roma un contratto quinquennale del valore di 1,5 miliardi di euro per la fornitura di servizi di telecomunicazione sicuri mediante l’implementazione di un sistema criptato di massimo livello per le reti telefoniche e i servizi internet del Governo italiano, le comunicazioni militari e i servizi satellitari per le emergenze. E seppure fosse, che ci sarebbe di male? Dove sarebbe il marcio? Se il pacchetto offerto funziona e va nella direzione della difesa dell’interesse nazionale, il Governo dovrebbe dire “no, grazie” solo perché a proporlo è quel “brutto ceffo” di Musk? E da quando un genio assoluto sarebbe divenuto un brutto ceffo? Perché apprezza idee di destra? Perché ha portato sugli scudi Donald Trump alla vittoria? Allora la dicano giusta i “compagni”, a loro Musk fa schifo non per ciò che la sua mente geniale ha prodotto ma per le idee di destra che la sua favella ha reso pubbliche. Perché dice ciò che pensa senza peli sulla lingua, a differenza di molti suoi colleghi miliardari, opportunamente accasati a sinistra e prodighi sostenitori del progressismo ma senza darlo troppo a vedere alle opinioni pubbliche mondiali? Che cosa meravigliosa questa sinistra: ipocrisia uber alles!

E poi, chi è che critica Meloni e vorrebbe che si recasse in Parlamento per fare abiura delle sue scelte strategiche? Gli ambienti “dem” prodiani, ispirati da quel tal Romano Prodi che, ai tempi della presidenza dell’Iri prima e del passaggio alla presidenza del Consiglio dei ministri poi, ha svenduto il patrimonio industriale e finanziario pubblico italiano a prezzi d’occasione? Quel tal Giuseppe Conte, che da presidente del Consiglio ha consegnato l’Italia a un patto scellerato con il gigante cinese, firmando nel 2019 il famigerato Memorandum d’intesa (MoU) per la costruzione del ramo europeo della belt and road Initiative, meglio nota come “Nuova via della seta”? Quel tal Matteo Renzi, che nel 2016 da capo del Governo ha tentato, senza successo, di mettere la cyber-sicurezza nelle mani di Marco Carrai, un imprenditore a lui vicino, di fatto provando a “privatizzare” i poteri e le funzioni degli apparati di sicurezza della Repubblica? Carlo Calenda, il malmostoso oracolo della tecnocrazia dei benpensanti, ha definito Elon Musk “un pazzo sempre più fuori controllo”.

Se questa è la cifra politica delle opposizioni in Italia, Giorgia Meloni può stare tranquilla e fare progetti per rifare casa al suo attuale domicilio: resterà a lungo residente a Palazzo Chigi. Quindi, tutto bene per il centrodestra? Neanche per idea. La storia insegna che la coalizione ha un’innata propensione all’autolesionismo. Lo aveva imparato a sue spese Silvio Berlusconi, che da capo del Governo è stato silurato non dagli avversari politici ma dalla miopia degli amici, a cominciare da quelli maggiormente gratificati dalla sua generosità. La saggezza antica recita: “dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io”. Giorgia Meloni dovrebbe farne tesoro. Già, perché la più scivolosa buccia di banana che potrebbe incontrare sul suo cammino non è roba della sinistra patetica e inconcludente ma produzione casalinga dei suoi zelanti supporter. La buccia di banana ha un nome e un cognome. Si chiama Luca Zaia. Il governatore sempiterno del Veneto dovrebbe, nelle intenzioni del partito del premier, fare le valigie e trovarsi un altro mestiere alla scadenza (vicina) del terzo mandato da presidente della Regione Veneto. Chi lo dice? In Fratelli d’Italia non fanno mistero di volere un proprio uomo alla guida della ricca regione del Nord-Est, strappandola di mano alla Lega.

Peccato, però, che Zaia non abbia alcuna voglia di lasciare e, soprattutto, che la maggioranza dei veneti abbia fiducia in lui e lo vorrebbe riconfermato nel ruolo. Ora, forzare la mano per prendersi una poltrona, ancorché importante, potrebbe provocare un altro “effetto Sardegna”, come quando per imporre un candidato di Fratelli d’Italia si è regalata l’Isola alla sinistra. Errare è umano, perseverare è da stupidi. Tuttavia, rispetto al disastro sardo, un terremoto nel centrodestra veneto avrebbe sicure ripercussioni sulla tenuta del Governo nazionale. Due gli scenari possibili, entrambi negativi. Il primo. Zaia, non bloccato da un niet della Corte costituzionale sulla legge regionale che ne consentirebbe la ricandidatura, decide di correre ugualmente da outsider, rompendo il fronte coalizionale. Vi è la concreta possibilità che la spunti. A questo punto, la Meloni si troverebbe a dovere fare i conti con un governatore eletto contro la sua volontà e con una sconfitta del suo campo. Le conviene?

Secondo scenario. Zaia si piega alla volontà della leader del centrodestra e si fa da parte lasciando spazio a un candidato di Fratelli d’Italia. A costui non basterebbe vincere per uscirne bene dalla transizione di potere, ma dovrebbe conseguire un risultato in termini di consenso adeguato se non pari a quello raccolto da Zaia all’ultima elezione regionale. Il problema è che il governatore ha portato l’asticella del consenso molto in alto, considerando che alle Regionali del settembre 2020 ha raccolto il 76,79 per cento dei voti, mentre la lista “Zaia presidente”, di sua diretta emanazione, ha conquistato il 44,57 per cento e 23 seggi in Consiglio regionale su 51. In coscienza, Giorgia Meloni ha una personalità da spendere in Veneto che, per credibilità e affidabilità operativa, possa anche lontanamente avvicinarsi ai numeri dell’uscente Zaia? Ma non è tutto. Il partito di Matteo Salvini, in fermento da tempo per il declino elettorale che sta vivendo, percepisce la difesa della presidenza di Luca Zaia alla stregua di una “linea del Piave”, da difendere a ogni costo. La perdita della candidatura Zaia verrebbe messa in conto dai leghisti alla segreteria federale di Matteo Salvini, aprendo a una possibile sua defenestrazione in favore di un cambio di traiettoria politica più “nordista” del partito di Aberto da Giussano. Converrebbe a Meloni ritrovarsi in casa un alleato molto critico e pronto a mollarla alla prima occasione, perché desideroso di ritornare al ruolo opportunista e parcellizzato di “sindacato dei territori” della Lega di Umberto Bossi?

Sarebbe salutare che la premier frenasse i bollenti spiriti dei suoi supporter e riflettesse bene sulle conseguenze di una forzatura interna alla coalizione. In fondo, un Salvini di “destra”, seppur ridimensionato ma pur sempre in sella alla guida del suo partito, è l’alleato più desiderabile per chi abbia in animo di fare il bis alle prossime politiche scavallando la quota del 50 per cento dei voti validi. Giorgia Meloni non dovrebbe dimenticare che la grande visione strategica, la quale connota lo spessore politico di uno statista, sta nella lungimiranza con cui questi tratta con scrupolo e prudenza non solo le questioni afferenti ai massimi sistemi ma anche le cose che possono apparire minori o di scarsa importanza ma che, alla lunga, possono rivelare la loro natura infida di bucce di banana.

I quotidiani di questi giorni danno conto di una Giorgia Meloni intenzionata a dare battaglia per impugnare davanti alla Consulta le leggi regionali della Campania – e del Veneto – che consentirebbero ai presidenti di regione uscenti di correre per un terzo mandato (per Zaia sarebbe il quarto). I retroscena raccontano di una Meloni che “tira dritto”. Occhio, però. A ignorare il pedale del freno c’è il rischio di andarsi a schiantare. E di farsi del male. Quanto male, è poi cosa da valutare a pasticcio combinato.

Aggiornato il 08 gennaio 2025 alle ore 12:18