Eppur si muove! Polemiche, prese di posizione, dibattiti arroventati: finalmente il Guardasigilli Carlo Nordio ha riproposto il tema della separazione delle carriere licenziando un testo che vuole garantire parità tra accusa e difesa. Un testo che, preoccupandosi della tutela effettiva dei diritti dei cittadini, tende ad essere momento di riequilibrio nel sistema Giustizia. Per troppi anni abbiamo assistito, nonostante le vibranti proteste dell’avvocatura, alla celebrazione di processi in cui le parti apparivano (ed erano) su piani di preoccupante disuguaglianza. Un processo in cui l’organo d’accusa sopravanzava la difesa ponendosi in una condizione di continuità col giudice terzo. Per troppo tempo, a cagione di una artefatta narrazione, si è restati silenti e ancorati ad un ingiustificabile immobilismo. E così, abbiamo registrato un periodo in cui (a onta di quanto statuito dai padri costituenti e dal legislatore) il principe del processo non è stato più l’imputato, ma il Pubblico ministero.
Siamo passati dalla figura del giudice tormentato nel porre in essere provvedimenti limitativi della libertà personale a quella del Pubblico ministero sorridente con il vestito casual e la giacca poggiata in maniera irriverente sulla spalla che, sorridendo alle telecamere, annunciava blitz e arresti. In quel momento si è celebrata una involuzione del sistema che ha teso a reincarnare il giudizio etico-morale e ha abbandonato la propria funzione. In quegli anni la magistratura requirente, pervasa da una brama purificatrice, si è proposta (distaccandosi dalla sua effettiva funzione) come elemento catartico e ha assunto i panni di un paladino di cui il popolo avvertiva la necessità. Tutti plaudivano a quanto accadeva. I più gioivano al tintinnio delle manette e godevano al pensiero che finalmente c’era qualcuno che la faceva pagare ai corrotti. In un tale contesto nacque Tangentopoli e mentre tutti erano lieti del passaggio dalla corrotta Prima Repubblica al paradisiaco approdo alla Nuova, nessuno si accorgeva che l’entusiasmo trasformava il diritto penale nel diritto alla vendetta.
La sanzione non doveva più risocializzare, ma limitarsi a punire e a mettere alla berlina coloro i quali avevano tradito il popolo ed avevano rubato il futuro dei nostri figli. Con questa narrazione unilaterale e incontrastata abbiamo assistito anestetizzati al dipanarsi di una moltitudine di processi che, col passare degli anni, non hanno fatto perdere memoria del giudizio tranciante di colpevolezza presunta emesso nella fase delle indagini, nonostante fossero intervenuti giudizi di assoluzione. E dai titoli di prima pagina su quattro colonne, relativi a vite spezzate ed irrimediabilmente distrutte, registrati al momento degli arresti, facevano tristemente seguito le notizie di assoluzione riportate in un piccolo trafiletto. Ma si sa, un arresto per quanto ingiusto rappresenta una notizia più ghiotta rispetto a un’assoluzione. Assoluzioni che hanno amaramente gratificato le persone senza restituire tutto quello che un processo aveva sottratto. Il processo, così, è diventato la pena.
Quante vite annullate, quante carriere cancellate, quanti uomini mortificati senza alcuna ragione. Di tutto questo però nessuno si è preoccupato e si è passati dal principio di non colpevolezza all’incivile convincimento che anche in presenza di un’assoluzione, in fondo, se in un momento è intervenuto un arresto, sicuramente chi lo ha subìto qualcosa avrà fatto e solo l’abilità di un avvocato gli avrà consentito di farla franca. Si è passati da una magistratura schiva e correttamente riservata a una mediatica che attraverso le televisioni si è preoccupata di promuovere un messaggio che nel tempo ed in alcuni casi è divenuto slogan politico. Qualcuno in una verve giustizialista, prodromica alla catechizzazione di un Paese in attesa, si è lanciato in giudizi inaccettabili nei confronti degli avvocati definendoli quasi “concorrenti dei propri assistiti”. Un giudizio inqualificabile da parte di chi, allorquando da magistrato è divenuto imputato, ha assunto i panni del garantista! Ma si sa, la legge per gli altri si applica mentre per se stessi ed i propri amici si interpreta.
Un approccio non certo consono a chi si candidava a rappresentare l’antipolitica facendo finta di non accorgersi che il proprio mondo era vittima delle stesse regole correntizie. Rispetto a tutto ciò dovremmo avere il coraggio di confrontarci su temi così importanti abbandonando la casacca di appartenenza e sposando la logica dell’onestà intellettuale. Dovremmo comprendere che non ci sono “unti del Signore” e che tutti abbiamo il dovere di remare nella stessa direzione. Se riusciremo a fare questo sforzo non potremo non essere al fianco del Governo in questa riforma. Non potremo non comprendere che il processo deve, non solo essere, ma anche apparire giusto. Abbiamo il dovere di assicurare l’estetica del processo e di impedire che nel cittadino possa farsi spazio l’idea che esista una parte (l’accusa) predominante rispetto alla difesa. Perché ciò avvenga il giudice deve essere distinto e distante allo stesso modo dal Pubblico ministero (che non può essere un suo collega) e dalla difesa.
In fondo basterebbe poco per capire quanto dovremmo esser grati a chi vuole portare avanti questa battaglia di civiltà e comprendere quanto rappresenti il momento di massima esaltazione della civiltà giuridica: sentirsi anche solo per un istante un po' imputati!
(*) Avvocato e presidente della Camera penale salernitana
Aggiornato il 16 dicembre 2024 alle ore 17:18