Armiamoci e partiamo

Sulla repentina soluzione della crisi siriana accettiamo volentieri il consiglio dispensato da Domenico Quirico dalle colonne de La Stampa: su Damasco liberata in un attimo dalla presenza del boia Bashar al-Assad meglio evitare facili ottimismi. Non che la defenestrazione di un sanguinario dittatore ci dispiaccia. Tuttavia, in tempi bizzarri di padelle e di braci che si moltiplicano, la prudenza, prima di intonare l’Alleluia, non è mai troppa. Anche perché a guidare il cambio di potere in Siria vi sono personaggi – a cominciare dall’autoproclamato leader della Repubblica araba di Siria, Abū Muḥammad al-Jawlānī – che fino al giorno prima si sono distinti per essere devoti tagliagole dell’Is, lo Stato islamico. Ora, non è che se un terrorista assassino indossa un blazer e si sistema la barba in stile Fidel Castro diventa di colpo un moderato da invitare a un tè pomeridiano per una gradevole conversazione.

Un jihadista resta un jihadista, anche se si dà una ripulita al look. E poi, a proposito di padelle e di braci, il fatto che il vincitore politico della partita siriana sia il turco Recep Tayyip Erdoğan non ci tranquillizza affatto. D’altro canto, lo abbiamo sempre pensato: se nel quadrante mediorientale gli Ayatollah iraniani sono sul gradino più alto del podio dei peggiori, il turco è in corsa per la seconda piazza. Non ci viene di gioire per la sedicente liberazione della Siria, perché è ancora troppo vivido e doloroso il ricordo dell’Afghanistan e della indegna fuga degli occidentali, nel 2021, da quel focolaio di integralismo religioso. Si dice che il lupo perda il pelo ma non il vizio e, allora, perché dovremmo credere ai tagliagole siriani quando promettono che non mancheranno alla parola data di non comportarsi da jihadisti; di essere pronti a riporre in un cassetto la venerata sharīʿa, la sanguinaria Legge di Allah, per fare della Siria un paradiso dell’inclusione e della tolleranza; che non reprimeranno le minoranze religiose presenti nel Paese, in primis i cristiani; che non imporranno alle donne la morte civile dentro la gabbia dello Chador? Non dimentichiamo la tragedia degli yazidi, sterminati dai tagliagole dello Stato islamico e non dimentichiamo l’eroismo dei curdi che hanno fatto da arginare alla ferocia degli integralisti islamici, anche per garantire sicurezza e tranquillità agli europei.

Gli americani, per affossare i sovietici, che nel 1979 avevano occupato l’Afghanistan, si fidarono dei mujaheddin senza fare distinzioni tra buoni e cattivi. E qual è stato il risultato? Osama Bin Laden, Al-Qaida, le torri gemelle. al-Jawlānī – vero nome Aḥmad Ḥusayn al-Sharʿa – ha fondato Jabhat al-Nusra, l’ala siriana di al-Qaida. È un terrorista doc, dalle mani sporche di sangue innocente. Ancora pende sul suo capo una taglia da dieci milioni di dollari offerta dalla Cia a chi avesse fornito indicazioni utili alla sua cattura. Oggi gli americani si fidano di lui e gli europei, che in affari di geopolitica contano quanto il due di coppe quando la briscola è a bastoni, fanno buon viso a cattivo gioco. Ma se fossimo al posto dei compassati leader del Vecchio continente terremmo la mano ben incollata al calcio della pistola perché non si sa cosa potrà accedere quando la polvere dell’entusiasmo per la cacciata del tiranno si sarà posata al suolo. Dateci pure dei rozzi e dei guerrafondai, ma a noi gli unici jihadisti che piacciono sono quelli morti.

L’evoluzione dello scenario siriano, oltre alle molte incognite, ci offre un paio di certezze. La prima: Erdoğan gonfia il petto all’idea di fare della Siria il tassello centrale della sua politica espansionista, dal Vicino oriente al nord Africa – dove ha già un piede in Libia – e all’Africa orientale, nell’area delle ex-colonie italiane di Etiopia e Somalia. Dopo aver stretto con successo l’alleanza strategica con l’Azerbaigian in chiave anti-armena per la normalizzazione del Nagorno-Karabakh e aver riannodato i fili della comunicazione e degli interessi commerciali con le molte comunità etniche turche nei Balcani, nel Caucaso e in Asia centrale, l’autocrate di Ankara ridesta il sogno imperiale ottomano. E lo fa appena fuori del nostro uscio di casa, della qual cosa forse dovremmo cominciare a preoccuparci, e proprio adesso che il Governo di Giorgia Meloni diventa un punto di riferimento europeo nel dialogo con i Paesi dei Balcani occidentali e si apre all’Africa attraverso l’implementazione del “Piano Mattei”.

La seconda: Non è che l’Italia – come d’altro canto nessuna delle Nazioni europee – abbia grossa voce in capitolo negli scenari del quadrante mediorientale. L’unica iniziativa ragionevole che dovrebbe vederci fortemente impegnati è l’innalzamento del livello di sicurezza del Paese. Come? Sviluppando un serio piano di riarmo. Donald Trump lo ha detto in tutte le salse: è finito il tempo dello zio Sam che ci guarda le spalle a sue spese. Chi, in Occidente, vuole proteggersi deve farlo mettendo mano al portafoglio. Sono anni che l’Italia, in ambito Nato, ha assunto l’impegno di portare la spesa per il settore della Difesa al 2 per cento del Bilancio dello Stato. E sono anni che puntualmente la promessa resta lettera morta. Il Documento programmatico pluriennale per la Difesa per il triennio 2024-2026 evidenzia un impegno finanziario, in termini di competenza, di 29.184,2 milioni di euro nel 2024, pari al 1,37 per cento del Pil previsionale di 2.130.480 milioni di euro. Di 28.875,5 milioni (1,31 per cento) per il 2025; di 28.745,4 milioni (1,26 per cento) per il 2026. Non basta per fare tutto ciò di cui il Paese ha bisogno per stare in sicurezza. Non basta per meritare di sedere al tavolo delle potenze economiche globali. È pur vero che il Bilancio integrato della Difesa – che somma il Bilancio ordinario della Difesa agli stanziamenti di interesse del Dicastero non presenti nel proprio stato di previsione della spesa – per il 2024 si attesta a 32.331,8 milioni di euro, però il programma degli investimenti richiederebbe ben altro sforzo finanziario.

È previsto il potenziamento degli strumenti abilitanti a supporto strategico alle operazioni. C’è da mettere mano al ripianamento delle scorte di armamenti e munizionamenti dopo lo sforzo generoso prodotto per aiutare l’esercito ucraino a difendersi dall’invasione russa. Bisogna potenziare la componente terrestre, che – è scritto nel Dpp – costituisce il fondamentale presidio di deterrenza e difesa del territorio e degli interessi nazionali, sia in patria sia all’estero. In concreto, bisogna intervenire su tutte le componenti della Difesa: quella terrestre, quella marittima, quella aerospaziale. La soluzione più sensata sarebbe una comune politica di difesa europea, se l’Unione europea esistesse per davvero. Ha ragione il ministro della Difesa, Guido Crosetto: il Governo deve battersi a Bruxelles per ottenere lo scorporo delle spese per la Difesa dal Patto di stabilità. Per ora siamo al libro dei desideri, perché un’Europa cosciente della propria ininfluenza geostrategica dovrebbe mettere a disposizione ingenti risorse finanziare per aiutare i Paesi membri a ammodernare i proprieserciti, in vista di una ancora più utopica formazione di un esercito comune europeo. Occorrerebbe un nuovo Recovery fund dedicato agli armamenti, atteso che il sostegno all’Ucraina per le forniture militari è una priorità anche nell’agenda della Commissione di Ursula von der Leyen bis.

Inoltre, vi è un ragionamento da fare sulla convenienza a produrre sistemi d’arma. Un recente studio di Mediobanca (The Defense era: capital and innovation in the current geopolitical cycle) ha evidenziato che il giro d’affari globale nel settore della Difesa è stato, nel 2023, di 615 miliardi di euro. La quota di fatturato delle aziende italiane del settore (Fincantieri e Leonardo) rappresenta il 4 per cento su scala mondiale e il 14 per cento del fatturato europeo. Piaccia o no, l’industria delle armi gode di ottima salute e investire nel settore porterebbe benefici al nostro Paese in termini di Pil e di occupazione. Se pensiamo al desolante scenario a cui ci stiamo rassegnando con la crisi dell’automotive, è lecito domandarsi: cosa aspetta il Governo a indirizzare i propri sforzi verso quei settori, come l’industria della Difesa, che tirano sul mercato?

Le prime cinque posizioni nella classifica 2023 dei produttori mondiali di armamenti sono occupate da aziende statunitensi: Lockheed Martin 55,0 miliardi di dollariRTX 36,8 miliardiBoeing 31 miliardiNorthrop Grumman 30,6 miliardiGeneral Dynamics 26,8 miliardi. É il momento di far sentire la voce italiana per ritagliarsi uno spazio un po’ più comodo al grande tavolo dei produttori d’armi. Se è vero che il nostro attuale Governo è il più stabile in Europa e il più affidabile nell’ambito dell’Alleanza atlantica, la cosa deve pure avere una contropartita sostanziale nei rapporti con i partner esteri. Per quanto sgradevole a sentirsi, la verità è che la guerra resta comunque un affare economico ed essere in grado di difendersi è un’esigenza vitale per qualsiasi Stato. E l’Italia non fa eccezione.

Aggiornato il 11 dicembre 2024 alle ore 11:10