Gli scivoloni della Cpi

Le sciocchezze sono come le ciliegie: l’una tira l’altra.

Ne abbiamo riprova constatando le iniziative che negli ultimi mesi la Corte penale internazionale dell’Aia è stata indotta – suo malgrado – ad assumere: nel marzo dell’anno passato emettendo un mandato di arresto nei confronti di Vladimir Putin e, alcune settimane or sono, altro mandato nei confronti di Benjamin Netanyahu.

L’emissione di tali mandati implica che se uno dei suddetti capi di governo dovesse ritrovarsi sul territorio di uno dei 124 Stati che hanno firmato e poi ratificato l’accordo internazionale istitutivo della Corte penale – lo Statuto di Roma – si dovrebbe procedere immediatamente al suo arresto ed alla sua traduzione davanti alla Corte per essere giudicato per le imputazioni contestate (deportazioni forzate, crimini contro l’umanità, genocidio ecc.).

Va ricordato ovviamente che la Russia e gli Stati Uniti, pur sottoscrivendo l’accordo istitutivo, non lo hanno mai ratificato secondo le procedure interne, privandolo dunque di ogni efficacia nei propri confronti.

Non si può infatti far finta di niente, considerando come due superpotenze mondiali come Russia e Usa, pur avendo sottoscritto l’accordo, non lo hanno ratificato, mentre la Cina non lo ha neppure firmato: il che di fatto priva l’accordo della forza che invece avrebbe posseduto se i tre colossi mondiali lo avessero fatto proprio (anche se poi, detto per inciso, i tre Stati spesso fanno riferimento nel dibattito pubblico proprio all’accordo da essi disconosciuto).

In sede internazionale, non basta infatti confezionare trattati giuridicamente raffinati, se poi i principali protagonisti sul proscenio mondiale non accettano consensualmente di accedervi e darvi vita: l’effettiva vigenza di un accordo internazionale si misura valutando non solo il numero dei partecipanti effettivi, ma soprattutto il loro peso politico, economico, sociale, militare.

E qui pare ovvio arguire che se anche il mondo intero avesse sottoscritto l’accordo, la semplice assenza di Russia, Cina e Stati Uniti, ne fa un trattato legittimo e tuttavia manifestamente inefficace, affetto da una pericolosa zoppia che lo priva di fatto di una sua universale credibilità.

Detto questo, vanno ancora valutati due palesi errori commessi non già dalla Corte penale – la quale ha fatto benissimo ciò che ha fatto – ma da quanti ne abbiano sollecitato l’intervento: il primo di carattere generale, perché di ordine politico; il secondo di carattere particolare, perché di ordine giuridico.

Dal primo punto di vista, il lapsus politico sta nel voler stabilire accordi di pace con una mano, mentre con l’altra mano si afferma che si vuole arrestare proprio colui con cui vogliamo far pace. Se infatti si voleva allontanare la pace, nulla di meglio che proporsi di arrestare Putin e Netanyahu, vale a dire coloro che al tavolo della pace dovrebbero sedere.

Dal secondo punto di vista, va notato invece come la Corte sia condannata a muoversi, suo malgrado, su di un terreno assai scivoloso e comunque disomogeneo rispetto a quello proprio delle altre istituzioni europee: la prima attinge l’universale della giustizia, le seconde non oltrepassano la soglia degli interessi di parte.

Infatti, mentre in punto di diritto l’operato della Corte appare ineccepibile, in quanto essa ha emesso dei provvedimenti sulla scorta di un esclusivo criterio di razionalità giuridica – sulla base di una valutazione in diritto dei comportamenti tenuti dai due leader politici; invece, quei provvedimenti appaiono privi in punto di fatto di un altro requisito necessario per ogni decisione assunta in sede giudiziaria: l’effettività.

Intendo dire che se, per un verso, ogni deliberazione giudiziaria si fonda sulla razionalità giuridica, rimane, per altro verso, priva di effetti se non sia assistita dal potere necessario per darvi esecuzione. Si suol dire ch’essa è “fondata” sulla ragione, ma è “munita” di potere: senza la prima sarebbe cieca, senza la seconda sarebbe vana. La Corte in questo caso – e non per sua colpa – ha emesso provvedimenti giuridicamente corretti, ma di fatto ineseguibili.

Essi non sono infatti assistiti dal potere derivante da una comune sovranità europea, che sia in grado di assicurare loro una reale efficacia. E ciò semplicemente perché di tale sovranità l’Europa è priva. E tuttavia, per così dire, ha mandato la Corte in avanscoperta, quasi allo sbaraglio.

E dunque, perché meravigliarsi? Se l’Europa non ha una comune sovranità in politica estera, nella politica di difesa, nella politica fiscale, perché mai dovrebbe – o potrebbe – avere una comune sovranità in politica giudiziaria?

Aggiornato il 06 dicembre 2024 alle ore 11:38