Non prendiamoci in giro. Per il centrodestra il voto in Emilia-Romagna e in Umbria è stato un doppio colpo che fa male. Si potrebbe decidere di nascondere i risultati sotto il tappeto dell’indifferenza, sperando che la memoria corta degli elettori li faccia dimenticare al più presto, ma non sarebbe la soluzione giusta per sanare una ferita che c’è stata e che va curata in modo appropriato. Dell’enfasi eccessiva con la quale la sinistra ha salutato il successo di domenica e lunedì scorsi abbiamo detto, per cui non è il caso di tornarci su. Diverso, invece, è il discorso sull’analisi di una sconfitta a destra per certi versi attesa, ma non per questo inevitabile. Non si può fare della vicenda emiliano-romagnola e di quella umbra un unico calderone, non fosse che per la presenza di un discrimine fondamentale: in Emilia-Romagna si provava a strappare il governo della regione alla sinistra; in Umbria era il centrodestra sul ponte di comando. Perciò, più opportuno sarebbe discutere di mancata vittoria nell’un caso e di sconfitta nell’altro.
Se di Emilia-Romagna abbiamo già ampiamente parlato, tocca focalizzare il discorso su ciò che è accaduto in Umbria. Poteva andare diversamente? Difficile dirlo col senno di poi. Di certo c’è che la governatrice uscente, Donatella Tesei, non ha scaldato i cuori dei suoi concittadini al punto da spingerli a dare, con il voto, un tangibile segno di gradimento del lavoro svolto al vertice dell’amministrazione regionale. Da qui, una prima considerazione. Donatella Tesei è stata candidata alla guida dell’Umbria provenendo dalle fila della Lega. L’odierna sconfitta distrugge un totem dell’identità leghista per il quale i suoi esponenti sono sempre e comunque ottimi amministratori locali, apprezzati trasversalmente dalle opinioni pubbliche territoriali. Per intenderci: alle regionali del Veneto nel 2020 la lista del governatore leghista uscente, Luca Zaia, ha raccolto il 44,57 per cento di preferenze, quasi triplicando i voti ottenuti dalla Lega (16,92 per cento); in Friuli Venezia Giulia il leghista Massimiliano Fedriga, nel 2023, è stato riconfermato alla guida della regione grazie anche al 17,76 per cento dei voti guadagnati dalla lista che recava il suo nome.
Nell’elezione umbra, la lista collegata a Donatella Tesei ha raccolto il 4,99 per cento dei consensi. È vero che la Tesei era stata eletta nel 2019 sull’onda del successo nazionale di Matteo Salvini, tanto che fu proprio la lista leghista a trainare, con il 36,95 per cento (154.413 voti), la vittoria del centrodestra. Sarebbe occorso che, nei cinque anni di consiliatura regionale, quel voto, frutto di una pulsione emotiva di un elettorato desideroso di dare una scossa al sistema politico, venisse trasformato dall’azione di governo del territorio in consenso consolidato nel convincimento della maggioranza della popolazione. Così evidentemente non è stato se ieri l’altro la Lega è calata a 24.729 voti, ai quali si aggiungono le 16.023 preferenze date alla “Lista Tesei”. In pratica, circa 113mila voti fuggiti via. Si obietterà: si sono riversati in Fratelli d’Italia seguendo la logica dei vasi comunicanti. I numeri però non sembrerebbero avallare tale tesi. Il partito della Meloni lunedì scorso ha ottenuto il 19,44 per cento, pari a 62.419 voti, mentre nel 2019 aveva raggiunto il 10,40 per cento e 43.443 preferenze. Lo scostamento in positivo è di 18.976 voti. Un recupero modesto rispetto ai voti in uscita dalla Lega. Discorso analogo per Forza Italia: 31.128 voti raccolti ieri l’altro a fronte dei 22.991 del 2019. Differenza in positivo di 8.137 voti. E tutti sottratti alla Lega? Improbabile.
Ciò che sembra più credibile è che quel consenso ampio, che ha fatto la fortuna del centrodestra nel 2019, sia refluito nell’ampio serbatoio dell’astensione. I dati sull’affluenza lo confermerebbero. Se nel 2019 i votanti sono stati 455.184 (64,69 per cento) su 703.596 aventi diritto, tra domenica e lunedì ai seggi si sono presentati in 366.830 (52,30 per cento). Uno scarto di 88.354 umbri che sono rimasti a casa. Le ragioni dell’insuccesso del centrodestra sono state illustrate da Luca Proietti Scorsoni in un articolo pubblicato sul nostro giornale. Un’analisi seria e puntuale a cui volentieri rimandiamo i lettori. Per quanto ci riguarda, preferiamo tenere l’occhio puntato sul dato dell’affluenza che potrebbe fornire una diversa chiave di lettura per ciò che è accaduto. In particolare, l’attenzione si focalizza sul dato del Movimento 5 stelle. Ieri l’altro, il movimento ex grillino ha ricevuto 15.125 preferenze. Eppure nel 2019, con un diverso leader (Luigi Di Maio) meno “tattico” di Giuseppe Conte, l’M5s aveva totalizzato 30.953 preferenze. Consenso dimezzato nel volgere di cinque anni.
Anche il “fenomeno Bandecchi” merita di essere osservato. Il focoso populista ternano, Stefano Bandecchi, nel 2023 è diventato sindaco di Terni sbaragliando con la sua iniziativa civica sia il centrodestra sia il centrosinistra. Bandecchi era passato al primo turno con 13.647 voti (28,14 per cento) per aumentare al ballottaggio a 19.748 (54,62 per cento) preferenze contro il candidato del centrodestra, Orlando Masselli. Nella vicenda regionale, i partiti della coalizione a sostegno della Tesei hanno recuperato il rapporto con Bandecchi per evitare che il Masaniello umbro si presentasse da outsider nella sfida regionale andando a pescare nell’area dello scontento che in passato confidava nel centrodestra a trazione berlusconiana. Tutto lasciava presagire che l’entrata del sindaco di Terni nella coalizione pro Tesei recasse un forte valore aggiunto in termini di consenso. Non è stato così. La lista Alternativa popolare ha raccolto 6.939 preferenze (2,16 per cento), cioè la metà dei voti che lo stesso Bandecchi aveva ottenuto lo scorso anno al primo turno delle comunali.
Ora, se unissimo i punti della mappa tracciata e li collegassimo alla dinamica dell’astensione, otterremmo una spiegazione plausibile del successo del Partito democratico per sottrazione e non per addizione del valore. Un’ipotesi interpretativa del voto che mette in crisi una lettura “moderata” degli accadimenti elettorali umbri. La Tesei ha vinto nel 2019 perché rappresentante di una forza che, al pari dei Cinque Stelle, proponeva un radicale inversione di rotta sull’economia, sui rapporti internazionali – in particolare con l’Unione europea – sulla moralizzazione della politica e sul sostegno agli scontenti – persone, famiglie, imprese – della globalizzazione. Benché su opposti fronti, anche i Cinque stelle godevano della medesima apertura di credito da parte dei delusi dal consociativismo in politica, dal mercato unico globale e dal turbocapitalismo. Significativa la circostanza che nel 2019 la somma dei voti anti-sistema di Lega e Cinque stelle rappresentasse il 41 per cento di quelli espressi. Aver tradito la promessa di costituire il principale fattore di rischio anti-sistemico ai danni dell’establishment nazionale ed europeo ha comportato, sia per la Lega sia per i Cinque Stelle, la perdita di parte cospicua delle proprie costituency.
In scala minore, l’effetto si è prodotto anche nel caso di Bandecchi, votato a Terni per il suo portato populista dirompente, ma snobbato dagli elettori quando si è omologato al sistema appoggiando un candidato di una coalizione tradizionale. Ovvio che non tutti i voti dei delusi siano rifluiti nell’astensione. Una quota è tornata a riversarsi sui partiti-fulcro delle rispettive coalizioni: Fratelli d’Italia e Partito democratico. Tuttavia, lo spostamento dell’insoddisfazione verso l’area dell’astensione ha determinato il crollo della partecipazione e, con esso, il riassetto dei rapporti di forza tra opposti schieramenti, a vantaggio di quello – il centrosinistra – che gode di una migliore organizzazione partitica territoriale e di una più capillare presenza nell’articolazione delle reti civiche e nel tessuto dei corpi intermedi della società civile. È sì un campanello d’allarme che deve suonare in casa del centrodestra ma per motivi inversi a quelli a cui la maggioranza degli opinionisti d’area continua a pensare. Non c’è una postura di destra da edulcorare per attrarre un mitico elettorato moderato. C’è invece necessità di ritrovare le regioni del dialogo con chi aveva creduto nel ribaltamento del sistema, prima votando i grillini e poi dando credito al “sovranista” Matteo Salvini.
Sebbene sia più che comprensibile la scelta di Giorgia Meloni di affidarsi al pragmatismo della realpolitik accantonando le impuntature ideologiche da partito di lotta, occorre non esagerare nella virata perché, come qualsiasi velista spiegherebbe, si rischia la scuffiata. Fuori di metafora, certe scelte pro-establishment potranno anche mandare in visibilio i mandarini di Bruxelles, ma porteranno alla rovina se fanno arrabbiare i poveri cristi che finora hanno creduto a un sogno di riscatto, ingentilito dal fascino di una offerta programmatica sostenibile. Luca Proietti Scorsoni, sebbene non abbia risparmiato critiche alla conduzione del Governo regionale di Donatella Tesei, l’ha assolta dalla responsabilità della sconfitta perché tutto sommato avrebbe ben operato nell’interesse della cittadinanza e dei territori umbri. Sarà vero, eppure ha perso. Segno che non basta far bene il compito che si è chiamati a svolgere, ma bisogna dare risposte coerenti a chi è a rischio di perdita di fiducia – o l’ha già persa – nella funzione democratica della rappresentanza politica. La si chiami pure “lezione umbra”.
Aggiornato il 22 novembre 2024 alle ore 11:38