Le elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Umbria hanno dato un verdetto certo e alcune importanti indicazioni, sulle quali sarebbe opportuno riflettere. Il verdetto: in entrambe le regioni ha vinto il centrosinistra. Risultato nitido, che non ammette dubbi visto che il sistema elettorale previsto per le regioni a statuto ordinario fissa l’elezione diretta e a suffragio universale del presidente della Giunta e del Consiglio regionale. Significa che si vince anche con un solo voto in più sui concorrenti. Michele De Pascale in Emilia-Romagna e Stefania Proietti in Umbria hanno battuto, rispettivamente, Elena Ugolini e Donatella Tesei, candidate della coalizione di centrodestra. Questi i fatti. Poi, però, ci tocca spalare la montagna di panna che sul dato elettorale è stata montata dagli esponenti del centrosinistra. In particolare, da una gongolante Elly Schlein, segretaria “per caso” del Partito democratico.
Nella “narrazione” a uso mediatico che viene diffusa dalla sinistra saremmo alla vigilia della svolta: gli italiani sarebbero pronti a dare il benservito al Governo Meloni e il voto di domenica e lunedì scorsi lo dimostrerebbe. Naturalmente, è una balla alla quale non credono neppure i suoi interessati propalatori. Perché del risultato in Emilia-Romagna – regione storicamente rossa per eccellenza – si sapeva già o, quanto meno, si poteva intuire lo scontato esito finale, tanto da non essere la notizia che, invece, sarebbe stata se si fosse concretizzato un ribaltamento delle previsioni elettorali. La vittoria della Ugolini avrebbe avuto nei manuali di giornalismo la medesima evidenza riservata al caso di scuola “uomo morde cane”.
Riguardo al voto umbro, con tutto il rispetto per gli abitanti di quella incantevole regione, appare un po’ forzata la tesi secondo la quale: “Ciò che l’Umbria vuole, lo vuole l’Italia”. Bisogna rimuovere la patina superficiale della propaganda per scoprire le reali indicazioni che questo test elettorale parziale ha fornito alla politica. Cominciamo col dire che, numeri alla mano, lo straripante successo del centrosinistra in Emilia-Romagna non c’è stato e anche lo scarto percentuale rilevato tra il vincitore e la sfidante è un effetto ottico distorcente della realtà. Michele De Pascale ha conquistato il 56,77 per cento pari in voti assoluti a 922.150 preferenze contro il 40,07 per cento (650.935) di Elena Ugolini. Ma alle elezioni regionali precedenti, del 26 gennaio 2020, il vincitore Stefano Bonaccini, anch’egli del Pd, aveva ottenuto 1.195.819 preferenze, cioè 273.669 voti in più di De Pascale. E questo odierno la Schlein lo definisce un successo travolgente? Si obietterà: c’è stato il calo dell’affluenza. E di chi è la responsabilità dell’astensionismo, di quelli che hanno governato fino al giorno prima dell’apertura dei seggi o di chi è stato a guardare dai banchi dell’opposizione? Nella regione emiliano-romagnola, il dato dell’affluenza è stato drammatico. Su un totale di aventi diritto pari a 3.576.451 unità, i votanti sono stati 1.660.042 (46,42%). Nel 2020, su 3.508.179 elettori si sono recati ai seggi in 2.373.974. Uno scostamento negativo di elettorato tra il 2020 e il 2024 di 713.932 unità. Se fossimo nei panni della dirigenza “dem”, dopo l’entusiasmo di facciata esibito a uso e consumo del volgo, ci concentreremmo molto seriamente nell’analisi di una perdita sostanziale, solo nascosta dal dato formale della vittoria sulla sfidante. Analisi che, specularmente, deve riguardare anche il campo del centrodestra. Il 40,07 per cento della Ugolini corrisponde a 650.935 preferenze assegnate. Nel 2020, a sfidare Bonaccini era la leghista Lucia Bergonzoni, che ottenne il 43,63 per cento e 1.014.654 voti. Ciò significa che il centrodestra ha perso per strada, in quattro anni di cui gli ultimi due trascorsi al governo della nazione, 363.719 votanti. Qualcuno a destra vorrà porselo il problema che probabilmente l’opposizione promessa la notte dei risultati elettorali nel 2020 si è nel frattempo evaporata? La pur simpatica signora Bergonzoni avrebbe dovuto mantenere la promessa fatta agli elettori quando, in prossimità della giornata elettorale, il 14 gennaio 2020 ebbe a dichiarare pubblicamente: “In caso di sconfitta lascerò il Parlamento e siederò in Regione, non potendo mantenere il doppio incarico di senatrice e consigliere regionale”. Presto detto, e non fatto. Nel marzo 2020, nel corso della seduta del Consiglio regionale, la consigliera Bergonzoni che, sulla carta, avrebbe dovuto guidare la “buona battaglia” del centrodestra allo strapotere “democratico” in Regione, ha lasciato il passo alla senatrice Lucia Bergonzoni. Obbligata dalla legge a scegliere, lei ha preferito il rassicurante scranno di Palazzo Madama alla ben più scomoda seggiola imbullonata nella “torre” felsinea della Regione, progettata dall’archistar giapponese Kenzo Tange. La leghista ha fatto quello che fanno gli uccelli migratori: è andata dove si sta meglio. Vuoi mettere i salotti romani con la trincea emiliano-romagnola? Tanto più che, l’“estremo sacrificio” compiuto accettando la “mission impossible” contro Bonaccini, le ha fruttato in premio la riconferma alla carica di sottosegretario alla Cultura nel Governo Meloni, dopo averla occupata durante il Governo Draghi.
Ora, saremmo curiosi di chiedere agli esponenti del centrodestra: davvero pensate che gli elettori abbiano l’anello al naso? Che certi giochi di palazzo non siano capiti e mal digeriti dalla gente che si sente presa in giro dalla politica delle promesse da marinaio? Se si vuole anche soltanto immaginare una rivincita tra cinque anni, è indispensabile che chi del centrodestra è stato battuto oggi resti di vedetta sulla prima linea del fronte a combattere quotidianamente la battaglia per un’alternativa seria e credibile allo strapotere locale della sinistra. Elena Ugolini le ha buscate, d’accordo. Forse perché è stata considerata una signor-nessuno, poco nota all’opinione pubblica. Adesso però non scappi. Ha cinque anni per mostrare ai suoi concittadini di che pasta è fatta. Conquisti sul campo la leadership dell’opposizione a De Pascale. Non si faccia tentare dal desiderare, come premio di consolazione, l’offerta di un biglietto di prima classe sulla tratta ferroviaria Bologna-Roma. Il problema che hanno entrambi gli schieramenti non è di recuperare voti dal campo degli avversari, ma di riprenderli dal serbatoio degli astenuti.
Non bisogna dare ascolto alle cornacchie dell’opinionismo a buon mercato, che leggono il fenomeno della diserzione crescente dalle urne con le lenti d’ingrandimento dello zeitgeist, lo spirito dei tempi che viviamo. Come se non fosse principalmente la responsabilità di chi governa e, in minore misura, di chi vi si oppone, a determinare la fuga della gente dal voto, ma un destino cinico e baro contro cui nulla può l’“innocente” classe politica. Se è alle Regionali che il fenomeno dell’astensionismo si fa sentire più che in altri appuntamenti elettorali – alle Europee di giugno 2024 in Emilia-Romagna ha votato il 59,2 per cento degli aventi diritto (2.065.812) e in Umbria il 60,81 per cento (415.693), vuol dire che è l’istituto regionale in sé, più del governo nazionale, a essere percepito distante dai cittadini, quando non inutile e dannoso per i suoi alti costi e gli inaccettabili sprechi. Una riflessione più approfondita su questo tema la classe politica dovrebbe trovare il coraggio di affrontarla. E l’accesa discussione in atto sulla legge per l’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario potrebbe essere l’occasione perfetta.
Riepilogando: la sinistra vince nelle due regioni al voto, ma non ha nulla di cui gloriarsi; il centrodestra perde, ma non è al tracollo; il Governo non risente del risultato contrario; la gente emiliano-romagnola e umbra tira un sospiro di sollievo perché, come si dice, “anche questa è fatta” e può tornare a occuparsi delle proprie vicissitudini quotidiane; gli astenuti non se ne sono accorti prima di ciò che stava accadendo, e non si scompongono dopo degli esiti del voto; il Movimento Cinque Stelle si è praticamente dissolto (3,55% in Emilia-Romagna, 4,71% in Umbria); all’assemblea dei pentastellati, che si terrà questo fine settimana, Giuseppe Conte farebbe bene a farsi nominare, anziché presidente, commissario liquidatore di una storia politica tramontata; la Lega è in crisi nera più in Emilia-Romagna (5,27%), che in Umbria (7,70%); il Pd cannibalizza, in entrambe le regioni, gli alleati di coalizione; le siepi centriste innaffiate da Matteo Renzi e Carlo Calenda se la cantano e se la suonano raccontando in giro che con i loro voti da prefissi telefonici si vince e senza si perde; i partiti tutti, di destra e di sinistra, dovrebbero passarsi una mano sulla coscienza e decidere di fare la sola cosa buona che possono fare: occuparsi dei bisogni della gente, prima che dei loro.
Aggiornato il 22 novembre 2024 alle ore 09:27