I cretini? A volte ritornano

Ossa spaccate (dei poliziotti), manifesti con i volti insanguinati di politici di destra presi di mira insieme al premier Giorgia Meloni, il fantoccio del povero ministro Giuseppe Valditara dato alle fiamme, il gesto mimato della P38 che torna a fare capolino in piazza. É di nuovo la cara, vecchia Torino, non più città operaia come una volta, a fare da sfondo alla rabbia studentesca che si fa violenta contro il Governo di centrodestra. Questo è stato il “No Meloni day” dei facinorosi travestiti, per l’occasione, da studenti protestatari. Dovremmo preoccuparci? Sta forse tornando il clima da rottura degli equilibri sociali che i più stagionati tra noi hanno conosciuto nel tempo storico della contestazione e del Sessantotto a cui seguirono in sanguinosa sequenza gli anni di piombo? Francamente, no.

Sebbene, in questi giorni, si sia udita la voce di un Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, invocare la rivolta civile, non v’è pericolo che il passato possa tornare nelle forme odiose del terrorismo politico. Non saranno le parole di un Landini qualunque – del quale, sia detto per inciso, abbiamo un giudizio pessimo – ad attivare lo scontro sociale nel Paese. Perché la protesta possa assumere i connotati di una ribellione popolare, nelle pieghe della quale possa insinuarsi una vena eversiva in grado di compiere il salto di livello dal piano della protesta organizzata a quello della lotta armata, occorre che le condizioni delle classi meno abbienti siano di tale arretratezza e insostenibilità da minacciare concretamente e in modo pressante la tenuta democratica della società. E, quand’anche le contraddizioni nei rapporti di produzione venissero tutte a galla, occorrerebbe che un grande e strutturato partito dei lavoratori e un altrettanto grande sindacato decidessero di assumere la responsabilità della rottura del patto sociale.

Non accadde negli anni Settanta con il Partito comunista italiano, che si schierò contro i terroristi delle Brigate rosse i quali – come onestamente ammise Rossana Rossanda – pure erano appartenuti all’album di famiglia della sinistra italiana. E neppure la Cgil, il più grande referente sindacale del movimento operaio italiano, volle stare dalla parte degli assassini. Perché mai dovrebbe esserci un ritorno a un passato buio adesso che le condizioni generali della Nazione, se non idilliache, sono enormemente migliori di quelle in cui maturarono pericolose tentazioni terroristiche? Oggi, la classe operaia non avverte la presenza dello Stato come una minaccia e, soprattutto, come il nemico istituzionale schierato dalla parte del capitale. Nell’attuale fase critica per i livelli occupazionali, insidiati dalle politiche industriali aggressive del turbocapitalismo, è semmai vero l’inverso: lo Stato è al fianco dei lavoratori per limitare i danni di un capitalismo transnazionale mordi e fuggi. Era un altro mondo quello in cui crebbe il fenomeno terrorista. Lo ha testimoniato il brigatista rosso Alberto Franceschini che, in un memoriale, ricostruisce le fasi di fondazione delle Brigate rosse.

Franceschini racconta di quello che può essere considerato l’evento fondativo delle Br: un convegno tenuto nell’agosto 1970 a Pecorile, piccola località dell’Appennino emiliano. Alla presenza di un centinaio di compagni, Renato Curcio legge la relazione introduttiva nella quale si afferma che: “Il movimento operaio che si sta sviluppando nelle grandi fabbriche manifesta un bisogno tutto politico di potere: la lotta contro l’organizzazione del lavoro, il cottimo, i ritmi, i capi. Per questo si muove al di fuori delle strutture tradizionali del movimento operaio, come sono il Pci e i sindacati. Il bisogno di potere lo porterà inevitabilmente a uno scontro violento con le istituzioni, anche con il Pci e il sindacato. È indispensabile quindi formare un’avanguardia interna a questo movimento che possa rappresentare e costruire questa prospettiva di potere. Ma questa avanguardia deve saper unire la politica con la guerra perché lo Stato moderno, per affermare il potere, usa contemporaneamente la politica e la guerra. Diventa quindi inattuale e non proponibile la strategia leninista dell’insurrezione che presuppone una fase politica di agitazione e di propaganda sostanzialmente pacifica, seguita poi dalla spallata finale, dall’ora X, cioè dalla fase propriamente militare” (A. Franceschini, Mara, Renato e io, 1988).

Il proposito velleitario fallì non solo per la capacità reattiva degli organismi di sicurezza e di ordine pubblico dello Stato, per la legislazione speciale adottata dal Parlamento per combattere l’emergenza terrorista, ma anche perché un Partito comunista italiano e una Cgil guidati da uomini di grande spessore, quali furono Enrico Berlinguer e Luciano Lama, fecero muro. Fortuna che il manipolo di teppisti visti all’opera l’altro ieri a Torino non potrebbe neanche lontanamente costituire l’ideale brodo di coltura nel quale far ricrescere l’eversione terroristica. Il muro di allora oggi non sarebbe immaginabile con una Elly Schlein al posto di Enrico Berlinguer e un Maurizio Landini – una mezzacartuccia se paragonato a giganti quali Giuseppe Di Vittorio e Luciano Lama – alla guida del sindacato.

Pur tuttavia, qualcosa del passato irrompe nel presente. Si tratta della lontana eco di un’esperienza vissuta. Parliamo del cretinismo di sinistra. La locuzione è di Leonardo Sciascia che la cita in un libro del 1979, Nero su Nero. Scrive Sciascia: “Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto forse saremo costretti a celebrarne l’Epifania”. Lo scrittore siciliano aveva visto giusto. Ciò che è accaduto dagli anni Sessanta in poi è la cronaca di una lunga teoria di stupidità che ha contagiato la sinistra gradualmente, ma inesorabilmente. La manifestazione più evidente dell’imperio del cretinismo è stata il piegarsi di quel mondo al conformismo che ha inibito alla sinistra stessa un’onesta lettura del reale.

Per molto tempo nel partito – almeno fino all’omicidio, nel 1979 a Genova, del sindacalista della Cgil Guido Rossa – si faceva difficoltà ad ammettere che le Brigate rosse fossero rosse, e non nere e chi, come Sciascia, aveva avuto il coraggio di dire la verità veniva sistematicamente emarginato e combattuto sottobanco dai padroni del pensiero-chic, quelli che “Né con lo Stato, né con le Br”, campioni assoluti della categoria più detestabile del cretinismo. La fenomenologia del cretino di sinistra ha condotto all’affermazione e, in seguito, al consolidamento di una doppia morale: “una cosa è giusta se è fatta da un uomo di sinistra o da un gruppo o da un partito di sinistra; sbagliata se fatta da un uomo di destra” (Sciascia). A leggere con attenzione, sembra che tali considerazioni sulla sinistra siano state scritte oggi e non 40 anni fa. Ma dobbiamo domandarci: se negli anni Settanta/Ottanta era l’ideologia, o almeno un’interpretazione deviata e deviante di essa, ad alimentare l’ipertrofia del cretinismo a sinistra, cos’è che lo nutre e lo stimola oggigiorno?

La risposta più efficace alla domanda l’ha fornita Stenio Solinas quando in uno scritto descrive gli ingredienti dell’impasto perfetto per il cretinismo di sinistra: “Il cretinismo di sinistra non era prerogativa né dei soli cretini né della sola sinistra. Dentro c’era dell’altro: rigurgiti antimoderni, frammenti di solidarismo cristiano mal digerito, avanzi dell’azionismo riciclati come garanti del cambiamento comunista, conati di ribellismo e di anarchia, paure e vigliaccherie piccolo-borghesi, complessi d’inferiorità liberaldemocratici, machiavellismi capitalistici, spezzoni di perdonismo cattolico e di odio di classe. E a dare il gusto a tutto, l’idea che dallo Stato si potesse spremere ciò che si voleva perché tanto era un altro da sé, una sovrastruttura da buttare, un nemico oggettivo di cui doversi sbarazzare, ma al quale imputare le cause di tutti i ritardi, tutti i disservizi, tutte le lentezze. Una testa di turco da deridere per poi magari accusarla di mancanza di dignità e di fermezza” (S. Solinas, L’infinito Sessantotto, 2018).

Praticamente, un affresco perfetto e veritiero dell’odierno progressismo, visto in azione nelle piazze, nei salotti radical-chic, nelle adunanze movimentistiche e nell’agone parlamentare in questi mesi che a reggere il timone della nave Italia c’è stato il centrodestra. Rispetto alla pennellata di Solinas vi sarebbe soltanto d’aggiungere qualche tocco, giusto per far risaltare la perfezione del quadro: un antisemitismo tornato libero di scorrazzare per le strade italiane ed europee, sdoganato dal pretesto dell’azione militare israeliana su Gaza; l’esplosione delle teorie gender e della voglia di imporle a tutti costi a un’umanità che fatica a comprenderle; un innamoramento per l’autodafé della storia millenaria dell’Occidente, a beneficio dei suoi nemici giurati.

Con ciò non intendiamo minimizzare la gravità dei fatti accaduti ieri l’altro a Torino. Vogliamo soltanto significare che chi ha vissuto gli anni della lotta armata e dell’eversione terrorista non può minimamente essere spaventato da quei pagliacci in piazza a Torino. Al più, si può rimanere inteneriti da un compassionevole senso di pena, tuttavia placato dalla granitica convinzione che una vigorosa pedata nel didietro a scopo educativo i fighetti, figli di papà che giocano a fare i rivoltosi immaginari, la meriterebbero. E volentieri.

Aggiornato il 18 novembre 2024 alle ore 09:27