Il bellum intestinum tra De Luca e Schlein per la riconquista della Campania e lo strano caso delle leggi regionali sul terzo mandato
Vincenzo De Luca pretende il terzo mandato per continuare a governare la Campania, dopo aver capito che da Napoli a Roma, intesa come Palazzo Chigi, la distanza appare ormai incolmabile. Purtroppo Elly Schlein, la segretaria del partito di De Luca, è irremovibile. Due mandati e non più di due. Il presidente campano, anzi il presidentissimo, come, stando ai fatti, bisogna chiamarlo, ha reagito facendosi approvare, a tamburo battente, dal suo Consiglio regionale una leggina ad hoc che sembra uscita dal fantasioso giure di una “paglietta” di Castel Capuano. La guerra intestina combattuta dal cacicco locale (Schlein dixit!) contro la leader del Pd sarebbe dovuta finire con il cacicco sottomesso all’autorità centrale oppure espulso dal partito. Invece, no. La Schlein abbraccia una terza soluzione. Non fa niente. Il divieto del terzo mandato è una regola che vale per tutti. Ma un conto è la regola, un altro è l’applicazione. Il presidentissimo De Luca sarà pure un cacicco nella considerazione di Schlein, tuttavia non solo minaccia di presentarsi alle elezioni regionali per il terzo mandato ma pure senza la casacca del Pd.
Perciò contro il Pd: da esponente ad avversario. Un avversario politicamente tanto forte da riuscire a far votare la legge sul terzo mandato dai consiglieri regionali del Pd (un pugno sui denti di Schlein!) e approvare pure l’ineleggibilità dei sindaci per eliminare concorrenti scomodi: “in aggiunta al rotolo”, napoletanamente parlando. La Schlein ha inghiottito anche la ribellione dei suoi consiglieri. La sua reazione è stata tanto elegante quanto impotente: “Siamo democratici nel nome e di fatto, non espelliamo nessuno”. Finora, il presidentissimo ha vinto. La prima battaglia è sua. La guerra però terminerà nel 2025. Vedremo allora se De Luca si candiderà davvero contro il Pd e riuscirà a farsi rieleggere, sempreché, ecco il cruciale punto giuridico della questione politica, sempreché la stravagante “leggina De Luca” non venga impugnata dal Governo Meloni oppure, impugnata, venga dichiarata incostituzionale. Mi piace ripeterlo: l’Italia sarà pure la culla del diritto, ma la creatura non è mai cresciuta. L’ennesima prova del rachitismo giuridico della legiferazione è riscontrabile nel macroscopico intreccio di norme statali e regionali generato dall’improvvida riforma costituzionale del 2001, il cosiddetto “regionalismo rinforzato”, che il centrosinistra fortissimamente volle per ottenere i voti leghisti senza riuscirci. In tale contesto normativo si colloca appunto la “leggina De Luca”, la quale presenta analogie con la fattispecie del “negozio in frode alla legge” (articolo 1344 del Codice civile).
Nella definizione del sommo Andrea Torrente, “ha luogo quando il negozio, pur rispettando la lettera della legge (verba legis), costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa e cioè per raggiungere un risultato praticamente equivalente a quello vietato dalla legge”. Il garbuglio truffaldino trae origine dalla legge 2 luglio 2004, numero 165, recante disposizioni di principio per l’attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione, in materia di ineleggibilità. Stabilisce che le Regioni disciplinano con legge i casi di ineleggibilità, specificamente individuati, di cui all’articolo 122, primo comma, della Costituzione, nei limiti dei seguenti principi fondamentali: (omissis) “f) previsione della non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del presidente della Giunta regionale”. L’articolo 122, primo comma, della Costituzione prescrive che i casi di ineleggibilità del presidente e degli assessori regionali “sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica”.
Il combinato disposto delle due norme, ossia il principio di diritto risultante dalla loro applicazione congiunta, non lascia adito a dubbi di sorta. Schlein ha ragione e De Luca, torto. Nondimeno il presidentissimo pretende di camminare nelle scarpe di Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, antesignano del metodo obliquo per aumentare i mandati. Infatti, è al terzo mandato in grazia della “leggina Zaia” del 2012 che attuava (otto anni dopo!) la legge 165/2004. Al Veneto hanno fatto seguito le Marche nel 2015 e il Piemonte nel 2023. Il presidentissimo campano, dunque, ha copiato i colleghi, superandoli nel ritardo dell’attuazione del principio costituzionale dei due mandati (venti anni dopo!) ma con l’eguale intento di aggirarlo con malizia. Infatti, la legge della Campania recita: “Non è immediatamente rieleggibile alla carica di presidente della Giunta regionale chi, allo scadere del secondo mandato, ha già ricoperto ininterrottamente tale carica per due mandati consecutivi. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione, il computo dei mandati decorre da quello in corso di espletamento alla data di entrata in vigore della presente legge”. Per modo che il presidentissimo, cadendo la “leggina De Luca” in costanza del secondo mandato, detrae il primo mandato già espletato e diventa eleggibile per il terzo mandato: un’acrobazia aritmetica, logica, giuridica. Consimili leggine ad personam mi fanno rimbombare nella mente la magistrale sentenza del giureconsulto Paolo: “Contra legem facit qui id facit quod lex prohibet; in fraudem vero qui salvis legis verbis sententiam eius. Ircumvenit”.
Ai parlamentari, ai giuristi, agli elettori non dovrebbero sfuggire né in generale la disinvoltura istituzionale delle Regioni né in particolare la gravità di tali specifiche condotte. Purtroppo essi sono attratti dal folclore dei politici regionali piuttosto che dai loro comportamenti che indeboliscono e disarticolano lo Stato di diritto. La Campania adempie ad un obbligo imposto dalla legge statale al solo fine di violarla. Seppure a riguardo dovessimo versare teoricamente nell’ambito della “legislazione concorrente”, non potrebbe mai sussistere il concorso di opposte prescrizioni. Il divieto dei tre mandati non tollera eccezioni: o vige o non vige. La Campania, nel mentre delibera di applicare la legge statale, con la legge regionale ne contraddice il senso “ad usum Delphini”. Perciò, quando Dante invocava la legge come rimedio (“onde convenne legge per fren porre”), fantasticava di un’Italia redenta dal diritto. Ma quando deplorava che la legge non fosse attuata (“le leggi son, ma chi pon mano ad esse”) aveva sotto gli occhi l’Italia reale.
Aggiornato il 16 novembre 2024 alle ore 09:36