C’è un sottile filo rosso che lega fatti di cronaca politica e giudiziaria apparentemente separati. Le decisioni della magistratura, ideologicamente orientata a sinistra, sulla non convalida dei rimpatri per gli immigrati illegali trattenuti nel centro di accoglienza in Albania; l’attacco violento contro le forze dell’ordine, a Bologna, per mano degli antagonisti dei centri sociali che avrebbero voluto impedire ai militanti di CasaPound di manifestare liberamente; il sindaco del capoluogo emiliano-romagnolo Matteo Lepore che ha accusato il Governo di aver inviato le camicie nere nella sua città. Sempre a Bologna, i muri tappezzati di manifesti con i volti insanguinati di Giorgia Meloni e del ministro dell’Università, Annamaria Bernini; la sinistra che tace di fronte a un chiaro atto intimidatorio rivolto all’indirizzo di due donne di destra; il segretario della Cgil Maurizio Landini che incita la popolazione alla rivolta sociale e lo fa con la benedizione del segretario del Partito democratico, Elly Schlein; manifestazioni che si susseguono nelle principali città italiane di sostegno ad Hamas e ai suoi leader sanguinari col pretesto della richiesta di fermare la guerra in Palestina; l’antisemitismo che riappare dalle profondità carsiche della nostra società. Qual è il comune denominatore?
La vittoria negli Stati Uniti d’America di Donald Trump, nelle modalità e nelle dimensioni in cui essa si è realizzata. Un successo straordinario destinato a sortire effetti sulla lunga distanza in tutto l’Occidente democratico. I fatti elencati, se inseriti in un quadro d’insieme, mostrano la loro reale natura: epifenomeni connessi a un processo di trasformazione profonda della società occidentale. Il nostro mondo sta tornando sui suoi passi dopo essersi spinto troppo oltre sul sentiero del progressismo ideologico. Dopo aver alzato sempre più in alto l’asticella dei diritti civili fino all’assurdo di dover inventare nuove antropologie per giustificare una condizione umana fondata sulla sistematica espropriazione dell’identità individuale e comunitaria; dopo aver accettato di disconnettersi dalla propria storia, eradicando la civiltà occidentale dal solco valoriale in cui è nata e si è sviluppata nei millenni; dopo aver surrogato gli antichi dogmi etici con la morale paralizzante del wokismo e della cancel culture. Di certo, il deragliamento della globalizzazione ha fornito un comodo mezzo per veicolare nel corpo vivo di società infiacchite dagli effetti nefasti delle prassi consumistiche illimitate le linee assiali di una civiltà fatta a immagine e impronta dell’ideologia progressista. Tuttavia, quella stessa civiltà, composta di esseri umani in carne e ossa, ha cominciato a manifestare sintomi da rigetto.
La novità rispetto ad analoghi momenti della storia passata è data dalla maturità delle masse, disponibili a incanalare all’interno della dialettica democratica il rifiuto a proseguire sulla strada tracciata dal progressismo, negando al disagio vissuto il più incontrollato e irrazionale sbocco ribellistico. La vittoria di Trump non può essere spiegata come una fase dell’alternanza di Governo disciplinata dalle meccaniche del bipolarismo politico. Siamo al cospetto di un’inversione significativa di rotta destinata a incidere sull’Ethos delle comunità occidentali. La sinistra italiana lo ha capito, ma non lo accetta e perciò reagisce in modo scomposto cercando, in tutti i settori della vita pubblica dove ancora può contare sui propri uomini (e donne) di fiducia, di fermare l’onda di risacca della restaurazione valoriale che sta per abbattersi su di loro. Sia chiaro, non parliamo di sommovimenti di superficie che appartengono al dominio del tatticismo e che possono prodursi e disfarsi nel volgere di un mattino o di una notte.
Pensiamo a processi lenti di sedimentazione di un diverso idem sentire che percorre trasversalmente la stratificazione sociale. I due effetti immediati dell’esito elettorale americano sono le primitive geometriche del processo di cambiamento in atto. Il primo effetto. La definitiva presa di coscienza, per questo tempo storico, del radicamento della separazione prepolitica, ontologica di due mondi non conciliabili, che spacca dall’interno le società civili occidentali. Scissione che può efficacemente essere rappresentata dalla diade assiale “sinistra-destra”, traducibile anche nella formula “progressisti-conservatori”. Agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, nel momento in cui la globalizzazione muoveva i primi passi lasciando intravvedere un futuro di benessere distribuito per vie reticolari all’intera umanità, si fece strada l’idea secondo la quale, riguardo all’architettura istituzionale, si dovesse superare la storica dicotomia sinistra-destra per fare spazio a una soluzione di sintesi superiore che andasse al di là dei due campi confliggenti, ma che nella sostanza ne inglobasse gli aspetti migliori e più rassicuranti in un continuum dialettico.
Tale spazio, individuato da Norberto Bobbio, venne denominato del “Terzo includente”. La sua rappresentazione nell’agone politico sarebbe stato il centro. A fornire spunti ideali su cui costruire un’articolata proposta programmatica, secondo Bobbio, avrebbero contribuito gli ideali del socialismo-liberale, non sgraditi alla sinistra riformatrice e non osteggiati dalla destra moderata. Il dualismo assiologico “sinistra-destra” avrebbe terminato la sua corsa nel cimitero degli anacronismi, tanto più che dopo la caduta del Muro e la fine del comunismo, una sinistra disorientata stava appropriandosi delle idee della destra per darsi una missione adeguata alle esigenze imposte dai tempi nuovi caratterizzati dalla vittoria del liberalismo sulle ideologie totalitarie che avevano segnato il corso del Novecento. È la critica che Ernesto Galli della Loggia mosse agli orfani del Partito comunista italiano in un articolo pubblicato il 15 dicembre 1993 sul Corriere della sera dall’eloquente titolo: “Se la sinistra fa la destra”. Siamo stati perseguitati in tutti questi anni dallo spettro del “Terzo includente” e dalla frettolosa condanna del conflitto destra-sinistra, bollato alla stregua di un’anomalia del tempo storico della modernità. Non era così e i fatti odierni lo dimostrano. Per svilupparsi, per procedere oltre le contingenze negative e non restare paralizzati dalla sclerosi di una società uniformata alla dittatura del pensiero unico è indispensabile che le differenze vi siano e che siano nitidi i contorni che perimetrano i campi opposti.
Dopo l’evidente fallimento del Movimento 5 stelle nel tentativo di ritagliarsi una terza via, distinta e distante dalle grandi famiglie politiche europee – che Norberto Bobbio avrebbe definito del “Terzo incluso”, cioè di chi cerca collocazione in uno spazio politico intermedio adottando la formula “né-né” – la radicalizzazione della società americana, impersonata dallo scontro tra Donald Trump e Kamala Harris, fa chiarezza del modello di società a cui dovremo abituarci, anche nella sonnacchiosa Europa, per i decenni a venire. E il crescente appeal dei partiti di destra presso gli elettorati del Vecchio Continente sta a certificarlo. Secondo effetto. Ha ragione Giovanni Orsina che, nell’articolo di ieri l’altro sulla Stampa, spiega come non abbia più senso qualificare populista la parte ormai maggioritaria della destra. In realtà, quella vista spingere alla vittoria Donald Trump è la destra che risponde alle mutate esigenze di un’epoca.
Come il paradigma Silvio Berlusconi è stato figlio dello Zeitgeist dei primi anni Novanta, dove “individualismo, ottimismo, fiducia nella globalizzazione, convinzione che l’Occidente avesse trionfato e il mondo intero fosse necessariamente destinato a imitarne il modello” (Orsina), allo stesso modo la destra del secondo decennio del nuovo secolo, riguardo alla ricomposizione della propria costituency su imprevisti fattori di classe, ha dovuto esplorare nuovi posizionamenti strategici avendo preso atto del mutato spirito del tempo e del fatto che “l’ordine utopico-liberale non abbia saputo mantenere le proprie promesse e che il suo fallimento ne abbia fatto emergere sempre più chiaramente i consistenti tratti di disumanità, l’affidarsi a un inesistente essere umano astratto, disincarnato, decontestualizzato, perfettamente morale e perfettamente razionale” (Orsina). Giorgia Meloni è lo sviluppo ultimo, maturo del passaggio alla nuova destra che si è datata parole d’ordine e obiettivi in linea con la lettura della crisi dell’Occidente.
Il discrimine che segna la differenza con la sinistra risiede nella circostanza che la destra, anche nella fase complicata di autorigenerazione, abbia fatto affidamento sulla nazione la cui presa concettuale sulla quotidianità della gente comune, secondo Giovanni Orsina, non è mai cessata. Se la destra ha qualcosa a cui aggrapparsi per tenersi a galla, la sinistra cosa ha? Dopo il crollo della grande utopia comunista non le è rimasto nulla. Non il Movimento operaio, non la lotta di classe, non la società egualitaria del collettivismo economico, non le ragioni (sbagliate) del socialismo. Da qui la scelta dettata dalla necessità di proporre il modello elitario del progressismo illimitato – del tutto è possibile e tutto è permesso (a chi ne ha le possibilità) – il quale tuttavia non è nelle corde antropologiche della maggioranza del popolo. Con l’affermazione di Trump la sinistra ha preso coscienza che la vittoria del centrodestra, nel 2022, non è stata un banale incidente di percorso ma il segnale prodromico di un tempo nuovo di trasformazione dei valori perenni dallo stato liquido, a cui erano stati declassati, alla solidificazione della continuità tradizionale. Processo alchemico dal quale loro, i progressisti, sono naturalmente esclusi.
Aggiornato il 13 novembre 2024 alle ore 10:47