Donald Trump è il 47° presidente degli Stati Uniti d’America. La sua è stata una vittoria schiacciante sull’avversaria democratica, Kamala Harris. Numeri impressionanti, ma non sorprendenti. Che la corsa per la Casa Bianca fosse un testa a testa dal finale incerto e caotico è stata una fantasia vissuta soltanto nella testa dei progressisti e di tutto il caravanserraglio di media e di istituti demoscopici loro fiancheggiatori. Sapevamo da tempo che non ci sarebbe stata partita tra i due e non perché siamo chiaroveggenti dalla sfera di cristallo. Semplicemente, ci siamo limitati a guardare la realtà senza avere gli occhi foderati di salame progressista. E cosa abbiamo visto? Una straordinaria somiglianza del quadro socio-politico statunitense a quello delle società avanzate del Vecchio continente. Simili problematiche strutturali, simili posture culturali delle classi dirigenti; simile redistribuzione dei rapporti di forza tra le classi sociali all’interno delle comunità nazionali; simili ricomposizioni dei blocchi sociali in riferimento alle collocazioni negli schieramenti politici; identiche differenze di approccio alle questioni connesse alla globalizzazione e al turbocapitalismo; simili gerarchie di priorità nella configurazione dei programmi elettorali dei campi contrapposti.
Ora, se nell’esercizio democratico della scelta della rappresentanza politica in Europa avanza la destra, come pensare che negli States sarebbe andata diversamente? I media organici al fronte progressista hanno truccato le carte della comunicazione insistendo nel rappresentare un’America che appartiene ai privilegiati delle aree metropolitane costiere dell’Est e dell’Ovest della Nazione ma non alla maggioranza del popolo americano. Dalle urne presidenziali è emersa plasticamente la differenza tra la destra e la sinistra del nostro tempo storico: la prima punta ai diritti sociali, la seconda ai diritti civili. È una linea di faglia nella visione della società che separa due mondi – uno progressista l’altro conservatore – allineati su orbite planetarie mai coincidenti. Eppure, in via teorica, non esisterebbe incompatibilità tra le due categorie di diritti ma un’ineludibile consequenzialità.
I diritti civili possono diventare priorità nell’indirizzo politico solo se e quando siano state risolte le contraddizioni che negano o comprimono il pieno godimento dei diritti sociali/economici da parte del numero più esteso possibile di componenti di un contesto comunitario. In soldoni, parlare della libertà di aborto della donna o di gender è surreale se l’opinione pubblica a cui ci si rivolge è occupata a combattere la disoccupazione, il lavoro povero e, soprattutto, il crollo del potere d’acquisto dei salari e dei redditi da lavoro autonomo. Questo è stato l’errore strategico commesso da Kamala Harris che ha voluto impostare la campagna elettorale, in particolare nella fase finale, sulla conquista dell’elettorato femminile, ritenuto più sensibile alla tematica dell’aborto e della parità di genere. Non ha valutato, la Harris, che le donne – non tutte, ma una buona parte – sono mogli, madri, che hanno la responsabilità di far quadrare il bilancio famigliare e che molto più dei partner uomini hanno effettiva contezza dell’impatto che l’inflazione ha avuto sulle magre finanze domestiche.
Ma le donne, in cospicuo numero, sono anche le devote in un’America profondamente segnata dalle appartenenze religiose, anche negli orientamenti confessionali più radicali. La battuta di Donald Trump che ha steso al tappeto la Harris, è tutta in una banale esortazione: “guardate quanto costa oggi una confezione di uova e ricordatevi quanto costava quando io ero presidente”. A fronte di un tale paragone non c’è discorso sui diritti civili che tenga, vincono le uova ai punti. Ciò non significa in alcun modo avallare l’ignobile analisi, velenosamente agitata dagli intellettuali radical chic del carro progressista, secondo cui il voto per Trump sarebbe stato un voto di pancia, sebbene è lì che finiscano le uova una volta cucinate e consumate. C’è dell’odioso razzismo classista in un pensiero del genere. Al contrario, giudichiamo la svolta a destra degli americani come l’esito politico di un ragionamento fondato su elementi di concretezza. L’interpretazione pragmatica delle dinamiche reali ha prodotto la saldatura tra le istanze di una classe operaia falcidiata dalla globalizzazione e un ceto medio regredito socialmente ed economicamente in ragione delle medesime cause che hanno generato effetti negativi sulla condizione della classe operaia. Effetti che evidentemente non hanno riguardato le classi medio-alte della borghesia americana la cui priorità, al pari di quelle europee, non è più di ordine economico ma sta nell’aspirazione a intestarsi nella dimensione del divenire della Storia la riscrittura dei codici culturali/antropologici del futuro dell’Occidente, antitetici rispetto a quelli ricevuti dalle generazioni passate.
Ma c’è dell’altro. La vittoria di Trump è stata la vittoria di un’idea di un capitalismo ancorato all’utilizzo dell’energia proveniente dal fossile – sua la battuta rivolta a Robert Kennedy Jr., accreditato come membro di punta della sua squadra di governo, durante il discorso della vittoria: fa quello che credi ma lasciami il petrolio, che è il nostro oro – e alla manifattura. Non è un caso che il tycoon abbia travolto la Harris negli Stati del Nord-est, a marcata componente operaia tradizionalmente democratica. Si tratta della Pennsylvania, della Virginia Occidentale, dell’Ohio, dell’Indiana, del Michigan, dell’Illinois settentrionale, dell’Iowa orientale, del Wisconsin e del Minnesota, i cosiddetti Stati della Rust belt, la cintura arrugginita. Cioè, i siti dell’industria pesante americana oggi ridotta a un mucchio di ferraglia da archeologia industriale per effetto della delocalizzazione delle produzioni siderurgiche e metallurgiche. Una massa di lavoratori disoccupati hanno voltato le spalle alla Harris volendo vedere in Trump – nelle sue parole sulla volontà di riportare negli Stati Uniti le produzioni manifatturiere – l’ultima spiaggia prima dell’abisso.
Al riguardo, la scelta fatta dal tycoon di affiancarsi nella carica di candidato vicepresidente, James David Vance – un giovane brillante politico e scrittore, che viene dall’Ohio e ha alle spalle una storia di povertà, paradigmatica per i ceti popolari di quell’area del Paese – è stata geniale. La storia di Vance è quella di un ragazzo che c’è l’ha fatta con le sue sole forze a tirarsi fuori dalla miseria e dal degrado a cui il destino l’aveva consegnato. Al contrario, la Harris viene da Oakland, città della costa est della baia di San Francisco. Lei appartiene alla buona borghesia californiana, liberal e progressista. Verso chi pensate che la gente comune avrebbe avvertito maggiore empatia e in chi si sarebbe più agevolmente immedesimata? Nella ragazza della buona società nata con un destino scritto di vincente o nel giovane la cui infanzia è stata segnata dalla povertà e dagli abusi? I progressisti – quelli transatlantici e quelli europei – fanno fatica a comprendere la complessità delle logiche che muovono gli interessi tra gli strati popolari della società. Non hanno letto lo slittamento in atto dell’asse della rappresentanza dei blocchi sociali di riferimento per i contrapposti schieramenti politici.
Da avanguardie, nel Novecento, dei lavoratori e delle lotte di classe, i progressisti si ritrovano nel Terzo millennio a rappresentare i privilegi dell’alta borghesia. Sarà costata loro una qualche fatica togliere dall’album di famiglia le fotografie di Rosa Luxemburg e di Anna Kuliscioff per sostituirle con quelle di Julia Roberts e Jennifer Lopez? Trump ha affermato la sua leadership intestandosi un cambiamento rivoluzionario nella riconfigurazione dell’elettorato tradizionale della destra repubblicana che, un tempo luogo d’elezione delle élite conservatrici, è divenuto bacino di drenaggio delle pulsioni nazional-popolari dei ceti medio-bassi della società. Una torsione baricentrica della destra che ha spiazzato gli avversari rimasti fermi alla narrazione caricaturale del Trump rozzo suprematista bianco la cui constituency naturale sarebbe stata limitata ai suoi pari: bianchi, ricchi, retrogradi, sessisti, razzisti.
I numeri dicono che il tycoon ha raccolto voti trasversalmente in tutti i gruppi etnici, strappandoli alla Harris. Dagli ispanici agli afroamericani, agli arabi, agli ebrei. Segno, tra l’altro, che la sua ricetta contro l’immigrazione illegale convince, visto che nessuno più di un immigrato legale, regolarizzato e integrato negli States, desidera che il Paese che lo ha accolto venga difeso dall’invasione da chi non ha diritto a starci. Finita la campagna elettorale, tocca a Donald Trump dimostrare il proprio valore sul campo mantenendo le promesse fatte agli americani. Dei rapporti con la vecchia Europa se ne riparlerà dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. Per adesso godiamoci il risultato. Non che ci riguardi direttamente, ma la soddisfazione provata nel vedere l’espressione livorosa e affranta dei progressisti nostrani di fronte alla vittoria a valanga dell’odiato nemico vale ogni secondo della nottata spesa ad attendere i risultati delle urne di Oltreoceano. Neanche fosse stata una Finale di Champions League. Con il Milan in campo, ovviamente.
Aggiornato il 11 novembre 2024 alle ore 10:33