Dovremmo erigere una statua a quei dodici immigrati clandestini, primi a finire nella nuova struttura di accoglienza di Gjader, in Albania. È grazie a loro, al fatto che siano diventati involontari ostaggi di una macchinazione ordita dalla magistratura militante contro l’azione di Governo, se la verità, colpevolmente silenziata fin dai tempi di Tangentopoli, sia venuta a galla. Da trent’anni a questa parte la società italiana ha patito una grave torsione democratica, concretizzatasi nella consolidata prassi di sindacato degli atti d’indirizzo politico da parte di un segmento fortemente ideologizzato dell’ordine giudiziario. Un gruppo di magistrati, cresciuti professionalmente nella logica della giustizia compensativa degli squilibri sociali connessi all’affermarsi del capitalismo, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ha maturato il convincimento di proporsi alla guida effettiva della nazione che, a causa del malcostume delle istituzioni governate dai partiti, rischiava la disgregazione morale del suo tessuto comunitario. La finalità della difesa di un’etica repubblicana dalla corruzione imperante trovava pieno appagamento nella cultura della giurisdizione intesa come “cultura della colpevolezza”.
I fatti recenti, che hanno condotto un giudice del Tribunale di Roma a negare la convalida del trattenimento amministrativo dei dodici immigrati nel centro in Albania grazie a una palese forzatura nell’interpretazione estensiva di una sentenza della Corte di giustizia europea del 4 ottobre 2024 (causa C – 406/22), hanno mostrato plasticamente all’opinione pubblica l’esito finale dello sviluppo nella quotidianità del concetto di “cultura della giurisdizione” quale conquista dell’egemonia sugli altri poteri dello Stato (Legislativo, Esecutivo). Ma hanno anche confermato oltre ogni ragionevole dubbio la condizione di subalternità organica di una parte della politica – segnatamente la sinistra in tutte le sue declinazioni – alla pretesa egemone del ramo militante della magistratura. Sarebbe istruttivo discutere nel merito le motivazioni che ci fanno asserire a ragion veduta che il decreto di non convalida del trattenimento, emesso dal giudice del Tribunale di Roma, sia sostanzialmente sbagliato, ma non è questa la sede appropriata per farlo.
Qui vale focalizzare l’attenzione sul dato politico macroscopico che è tutto nello spirito e nella lettera della mail mediante la quale il giudice Marco Patarnello, sostituto procuratore generale presso la Procura generale della Corte di Cassazione, ha espresso la sua opinione ai colleghi coinvolti nella discussione online sul che fare per contrastare l’azione di Governo di Giorgia Meloni. Di là dalla sgradevolezza nel definire il compianto Silvio Berlusconi più debole della stessa Meloni perché sotto scacco grazie alle numerose inchieste giudiziarie – poi sfociate in processi penali – condotte a suo carico, l’idea forte contenuta nello scritto è centrata sulla necessità della difesa della giurisdizione dall’assalto che il centrodestra le recherebbe attraverso una possibile riscrittura di essa. Per il giudice Patarnello la prerogativa riformatrice, anche della giustizia, che è riconosciuta dalla Costituzione ai partiti i quali concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale (articolo 49 della Costituzione), dovrebbe intendersi alla stregua di un attentato all’integrità della giurisdizione e alla sua prerogativa d’interpretazione esclusiva dei corretti assetti costituzionali. Patarnello invoca l’unità e la compattezza di un corpo di magistrati, al momento piuttosto debole e disunito, nell’affrontare con determinazione la santa causa della difesa della giurisdizione.
Tuttavia, il non detto della riflessione di Patarnello, che stimola la nostra curiosità, verte sul come concretamente dovrebbe realizzarsi tale difesa da parte dei giudici. Il fatto che Patarnello nella mail tenga a precisare che la magistratura non debba fare opposizione politica non fuga ma accentua il sospetto che la invocata difesa della giurisdizione celi la volontà di una affermazione egemonica. Lo scritto indica con chiarezza che l’azione politica del magistrato non debba disporsi sul medesimo piano agito dal sistema dei partiti. Patarnello colloca la funzione e il ruolo del magistrato sul livello superiore del controllo della compatibilità dell’azione di Governo – a prescindere dal suo colore politico – con la visione di società che scaturisce dall’impianto etico-valoriale della cultura della giurisdizione. Il problema è che implicitamente Patarnello – e tutti i magistrati che condividono il suo pensiero – vulnera il processo democratico di composizione dell’indirizzo politico e, di conseguenza, comprime la titolarità del corpo elettorale a esercitare il diritto sovrano nella scelta della rappresentanza in seno all’organo legislativo chiamato a dare la fiducia al Governo e a legiferare.
Il decreto di mancata convalida del trattenimento si inserisce perfettamente in tale logica di cui non è causa, ma effetto. In soldoni, se nella visione dei difensori della giurisdizione vi è salda l’idea che gli immigrati, ancorché irregolari, una volta giunti in Italia non vadano respinti, non c’è legge o provvedimento governativo che tenga perché le cose possano andare nella direzione indicata dalla maggioranza parlamentare scelta dai cittadini. È per questa ragione che siamo fermamente convinti della natura egemonica in termini gramsciani dello scontro tra una parte della magistratura e una parte della politica. La questione, per dirla brutalmente, si riduce a una domanda elementare: chi comanda? Nei trent’anni che hanno preceduto il Governo Meloni, l’andamento dei rapporti di forza è stato ondivago. Vi sono stati momenti (rari) in cui la politica sembrava riprendere la sua centralità, alternati ad altri (frequenti) nei quali è stata la magistratura militante a dettare la linea al Paese, generalmente in concorso con altre forze e gruppi di pressione interni alla nazione, ma anche esterni. I più anziani ricorderanno la prima volta pubblica dei giudici a stroncare l’azione di Governo.
Accadde nel luglio del 1994, primo Governo Berlusconi. L’oggetto della contesa era il “Decreto Legge Biondi”, dell’allora ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Biondi, che introduceva norme maggiormente garantiste in materia di applicazione della custodia cautelare agli indagati. Al momento della conversione in legge del decreto, si presentò in televisione il pool di Mani pulite, capeggiato dalla star del momento Antonio Di Pietro, a dichiarare la propria totale contrarietà alla riforma e a minacciare le dimissioni in massa in caso di approvazione. L’esito del pronunciamento irrituale dei magistrati fu che il decreto non venne convertito e decadde. Fu la volta in cui la politica chinò platealmente il capo davanti a un diktat dei giudici. Ma non fu l’unica. Gli interventi a gamba tesa per ribadire la primazia del sindacato etico della giurisdizione sulla politica si sono verificati con frequenza. Fino ai giorni nostri. A riguardo, è sufficiente ricordare i casi “freschi” dell’ex governatore della Liguria, Giovanni Toti, costretto dal braccio di ferro con i magistrati inquirenti a dare le dimissioni “spintanee” dalla carica ricoperta pur di riavere la libertà personale. E quello, mostruoso, di Matteo Salvini che rischia una condanna per sequestro di persona per aver esercitato la funzione di ministro dell’Interno.
Giorgia Meloni ha deciso di accettare la sfida della magistratura militante che vorrebbe cristallizzare lo status quo consolidatosi nei decenni addietro di un potere che ha tracimato dal suo alveo naturale e che, paradossalmente, per difendere la sua presa egemonica invoca la separazione dei poteri che verrebbe attentata dalla politica a suo danno. Siamo convinti che se il povero Montesquieu fosse vivo andrebbe dai carabinieri a denunciare i “cultori della giurisdizione” e i loro supporter della sinistra per stupro continuato del suo pensiero. Non sarà facile per il capo del Governo avere la meglio in questa battaglia esistenziale per la democrazia. Anche perché può contare poco o nulla sul sostegno del presidente della Repubblica il quale, in una circostanza tanto delicata, potrebbe fare molto di più che limitarsi a un pavido richiamo alla leale collaborazione tra organi e poteri dello Stato.
Potrebbe, il capo dello Stato che presiede l’organo di autogoverno dei giudici, far sentire la sua voce in quella sede per spiegare ai magistrati che le leggi della Repubblica devono essere applicate e non interpretate in base ai propri convincimenti e orientamenti filosofici e ideali. Un altro presidente della Repubblica – il compianto Francesco Cossiga – non esitò un istante, nel 1985, a mandare al Csm i carabinieri comandati da un generale di brigata e con un equipaggiamento antisommossa, pronti a irrompere nel Palazzo dei Marescialli (sede del Consiglio superiore della magistratura) qualora i suoi membri non avessero desistito dall’insano proposito di considerarsi “terza Camera”, a dispetto della Costituzione. Ieri l’altro il Governo ha fatto la sua mossa: ha innalzato a norma di rango primario nella gerarchia delle fonti giuridiche la disposizione con la quale fissa l’elenco dei Paesi ritenuti sicuri, presso cui poter rimpatriare gli immigrati clandestini.
Di regola, i giudici di merito dovrebbero prendere atto della nuova disciplina e adeguare a essa le future decisioni. Potrebbero, però, rifiutarsi di farlo. A quel punto il conflitto tra poteri dello Stato non potrà più essere nascosto sotto il tappeto del galateo istituzionale. E toccherà al presidente della Repubblica dire agli italiani se sono in una repubblica giudiziaria, in cui l’azione di Governo è autorizzata e vigilata dai guardiani dell’etica repubblicana o se vivono ancora in uno Stato costituzionale d’impianto liberale, protetti dalla stella della sovranità popolare scolpita nell’articolo uno della Costituzione.
Aggiornato il 24 ottobre 2024 alle ore 09:56