L’Europa dalle incredibili contraddizioni

Qualche anno fa, nel pieno dell’emergenza pirateria nel golfo di Aden, l’Unione europea, su pressione degli armatori danesi, olandesi e tedeschi, decise di sottoscrivere un accordo con il Kenya ed un altro con Gibuti, al tempo evidentemente ritenuti sicuri ed affidabili, per accogliere e far giudicare i pirati somali fermati dalle navi della missione militare Atlanta, istituita per scortare le navi in transito in quelle acque ad alto pericolo.

Al fine di non alimentare ulteriore immigrazione i Paesi di bandiera delle navi coinvolte non volevano trasferire le persone fermate sul proprio territorio come le norme prevedevano, conseguentemente il Consiglio venne loro in soccorso negoziando intese con Stati disponibili ad assumersi l’onere della giurisdizione e della detenzione.

Le intese sottoscritte sicuramente prevedevano la garanzia dell’equo processo e del rispetto dei diritti umani, compreso il divieto della pena di morte, la presunzione di innocenza, l’assistenza consolare a spese dello Stato di bandiera e ben presto le autorità giuridiche dell’Ue espressero soddisfazione per l’efficace esecuzione dell’intesa. A seguito delle difficoltà dovute all’alto numero di pirati da giudicare in Kenya, l’Ue siglò poi un altro analogo accordo con la Repubblica delle Seychelles il 30 ottobre 2009.

La decisione assunta ebbe successo e contribuì ad eliminare il fenomeno dimostrando che, quando si vuole, la cooperazione internazionale e l’adattamento del Diritto internazionale possono contribuire ad individuare gli strumenti idonei a tutelare l’interesse collettivo degli Stati di fronte a nuove problematiche emergenti.

In merito alla recente sentenza della Corte di giustizia europea, nel momento in cui essa fissa un principio di diritto, lo stesso è vincolante per tutti i giudici dei Paesi dell’Unione. In questo senso, a livello giurisprudenziale, una sentenza della Cgue ha una portata e cogenza maggiore di una sentenza delle Sezioni unite della Cassazione. Ovviamente, premesso che l’estensione di un principio fissato dalla Cgue ad un caso diverso da quello deciso è un’operazione ermeneutica e come tale discutibile, sarebbe anche onesto sottolineare che alla luce di tale sentenza nessun Paese al mondo potrebbe considerarsi sicuro e dovrà essere pertanto possibile sottoporre alla Corte europea un caso recante un principio di diritto già deciso, affinché, tenuto conto della perentorietà eccessiva dello stesso, si possa pervenire ad una sua precisazione e mitigazione.

Altrimenti il problema non sono i centri in Albania poiché in base alla sentenza del 4 ottobre i giudici romani avrebbero fatto la stessa cosa anche se quei migranti fossero stati in un centro italiano.

Infatti la sentenza ha stabilito che il diritto dell’Unione impedisce che uno Stato membro designi un Paese terzo come sicuro ad eccezione di parti del territorio o di categorie di persone , proprio ciò che ha fatto l’Italia inserendo nella lista la Tunisia (ad eccezione della comunità Lgtbq+), l’Egitto (ad eccezione di oppositori politici e diisidenti), Bangladesh (ad eccezione di violenze di genere e minoranze etniche e religiose), tanto per fare qualche esempio. D’ora in poi tutti i migranti che approdano nelle nostre coste provenienti da quei Paesi non potranno essere più rimpatriati a prescindere dagli accordi bilaterali già sottoscritti la cui ratifica ha comunque valore di legge.

In Italia esiste un precedente che ha fatto prevalere il diritto interno rispetto a quello della giustizia comunitaria. Si tratta del caso Taricco. Con la pronuncia 115/2018 la Corte costituzionale pose fine alla vicenda sostenendo che la sentenza con cui la Corte europea richiedeva che il giudice italiano disapplicasse le norme domestiche in materia di prescrizione per reati fiscali non doveva essere adottata perché in contrasto con il principio di determinatezza penale sancito dal nostro ordinamento. La pronuncia aggiungeva che “non spetta ai giudici, soggetti solo alla legge, compiere valutazioni di politica criminale, ma al legislatore”.

In considerazione dei numerosi accordi bilaterali conclusi dall’Italia con Paesi ora insicuri e delle conclusioni della pronuncia della Consulta si spera quindi si possa giungere al più presto ad una ricomposizione della delicata questione. È comunque triste che un argomento di tale rilevanza strategica nazionale debba essere rilasciato alle aule giudiziarie e non trovi un fronte comune verso una sentenza europea complessa sia nell’interpretazione che nell’applicazione.

Aggiornato il 22 ottobre 2024 alle ore 09:38