A Pontida arrivano i ragazzi di Buda

Lo scorso fine settimana la Lega si è ritrovata a Pontida, da trentaquattro anni (primo raduno il 20 maggio 1990) luogo in cui il capo del partito detta la linea alla presenza dei dirigenti e dei militanti. Quest’anno non ha fatto eccezione. La Pontida 2024 ha segnato un tornante della storia leghista, perché il riposizionamento strategico del partito verso l’area della sovranista, che lambisce gli spazi del radicalismo di destra un tempo occupati dalle formazioni extraparlamentari più intelligenti e colte sorte in alternativa al Movimento sociale italiano, ha ricevuto una sorta di consacrazione dal popolo di Alberto da Giussano. Non è roba da poco, ancor più per la solennità che Matteo Salvini ha voluto conferire all’evento con la presenza dei maggiori leader sovranisti europei. E non solo. Molto più delle parole, hanno fatto aggio le foto degli amici stranieri del “Capitano”. Si obietterà: c’erano stati anche in passato ospiti venuti da fuori. Vero, ma c’è un’abissale differenza tra ieri e oggi. Negli anni scorsi a fare passerella sul palco di Pontida erano stati esponenti di piccoli gruppi di destra, scarsamente gettonati nei loro Paesi di provenienza e perciò poco incidenti sull’effettivo respiro internazionale del raduno.

In particolare, lo scorso anno la star era stata Marine Le Pen, l’unica che avesse una qualche consistenza elettorale a casa sua. Domenica, invece, ciò che si è visto a Pontida ha restituito – piaccia o no – lo spaccato di una destra sovranista che avanza in Europa e che si prepara a forzare il cordone sanitario con cui i partiti dell’arco democratico europeo vorrebbero contenerla e isolarla. Parliamo di personaggi del calibro di Viktor Orbán, guida assoluta della sua Ungheria; di Geert Wilders, leader del Partito per la libertà e la democrazia (Pvv) che in Olanda alle politiche del 2023 è diventato il primo partito con il 23,49 per cento dei voti conquistati e che oggi sostiene la coalizione di Governo del premier Dick Schoof. C’era Marlene Svazek, vicepresidente del Fpö, il partito che di recente ha vinto le elezioni in Austria. Presenze significative sono state quelle di José Antonio Fúster, portavoce del partito spagnolo Vox e di André Ventura, presidente del Chega, che alle politiche del 2024 in Portogallo si è affermato come terzo partito con il 18,88 per cento dei voti, alle spalle di Alleanza democratica (30,15 per cento) e del Partito socialista (29,26 per cento).

Hanno inviato audiomessaggi il presidente del Rassemblement National francese, Jordan Bardellaalter ego di Marine Le Pen – e l’ex presidente del Brasile, Jair Bolsonaro. Salvini ha portato a Pontida gli esponenti di spicco del Gruppo Patrioti per l’Europa che al Parlamento europeo rappresenta la terza forza per consistenza numerica. Ribadiamo: Pontida non è stata passerella. I contenuti politici illustrati dagli ospiti nei loro interventi – e ribaditi dal segretario leghista in chiusura di manifestazione – hanno un peso che non può essere minimizzato né ignorato dalle altre forze politiche italiane, di maggioranza e di opposizione. In particolare, l’attenzione ai contenuti va focalizzata su due temi. Il primo. I sovranisti, invertendo la rotta rispetto alle posizioni passate, dichiarano esplicitamente di non voler abbandonare l’Unione europea ma di volerci entrare con forza, per prenderne il controllo. Si tratta di una novità importante perché prelude a un’inversione strategica nell’approccio alle politiche comunitarie di Bruxelles. I sovranisti, per bocca di Viktor Orbán, scoprono una vocazione maggioritaria che non ha bisogno di attendere le prossime elezioni europee per affermarsi.

È sufficiente il consolidamento del trend che sta portando le forze sovraniste al Governo di un crescente numero di Paesi dell’Unione. Se si considera che l’architettura istituzionale dell’Unione è bicefala, con un Consiglio europeo composto dai capi di Stato e di Governo dei Paesi membri posto a bilanciare l’impatto decisionale del Parlamento europeo e della stessa Commissione, sarà improbabile che l’attuale governance dell’Unione – espressa da una maggioranza disomogenea, messa insieme tra popolari, socialdemocratici, liberali e verdi – possa ignorare le indicazioni fornite dai rappresentanti degli Stati sul perseguimento delle “policies” comunitarie. Il secondo. Il punto di sintesi delle istanze di cui sono portatrici le singole espressioni sovraniste è dato dalla politica di respingimento dell’immigrazione irregolare. Sotto questo riguardo, Orbán ha innalzato Matteo Salvini al rango di paradigma per l’azione politica di tutti i partiti sovranisti. Per la vicenda giudiziaria di cui è protagonista il “Capitano”, il premier ungherese si è spinto a definirlo eroe avendo chiuso i confini e avendo difeso le case degli italiani. Un’impresa politica che, per Orbán, meriterebbe l’assegnazione di un’onorificenza e non un processo giudiziario. Sulla medesima lunghezza d’onda tutti gli altri leader stranieri presenti.

Una legittimazione internazionale che spiana la strada a Salvini per tentare di prendere possesso di quel vasto dominio elettorale della destra che finora è stato appannaggio esclusivo di Fratelli d’Italia, in quanto erede legittimo sia di Alleanza nazionale, sia del Movimento sociale italiano. Si tratta di uno spostamento di asse che non può non impensierire Giorgia Meloni la quale, a sua volta, si vede spinta verso una deriva moderata, vagamente conservatrice, atlantista ed europeista che non è totalmente nelle corde di quella destra che ha mantenuto le radici nella storia del secondo Novecento. Se le immagini e i simboli hanno un significato, per Giorgia Meloni deve essere stato un boccone amaro da mandare giù vedere i suoi vecchi sodali europei consacrare la leadership di Matteo Salvini sul prato di Pontida. Quegli stessi che, come Viktor Orbán e gli spagnoli di Vox, negli anni passati hanno fatto da corona ai suoi raduni di partito. Deve essere stata dura per tanti dirigenti e militanti di Fratelli d’Italia, dal fiero passato nel Movimento sociale italiano, sentire intonare dai leghisti Avanti ragazzi di Buda, la canzone del cuore dei vecchi e giovani camerati che, erti sui muri e sui reticolati dell’Europa separata degli Anni Sessanta-Settanta, combattevano per un sogno: l’Europa nazione. Matteo Salvini, dal 2019 a oggi, ha perso moltissimi dei voti capitalizzati nel periodo della sua ascesa. Resta fortemente improbabile che potrà risalire la china del consenso nei numeri eccezionali del 2019. In compenso, con l’ultima Pontida ha completato con successo il processo di ridefinizione dell’identità leghista.

D’ora in avanti, nessuno, all’esterno come all’interno del movimento, potrà dire che la Lega sia una cosa diversa da un partito anti-mondialista della destra sovranista, cui non sono estranei accenti nazionalistici e simpatie putiniane. L’unica concessione offerta alla pulsione federalista del partito è stata la riforma dell’autonomia differenziata su base regionale, ancora però tutta da implementare. Un risultato che ha messo a tacere la dissidenza interna figlia di una filosofia utilitarista e bottegaia, la quale non ha mai fino in fondo compreso la scelta di Salvini di esplorare le terre incognite della destra oltranzista. Il processo di riposizionamento strategico della Lega si è sovrapposto alla fase di transizione personale del capo da un piano di negatività della prima fase della “rivoluzione leghista”, contrassegnata da un confuso sincretismo ideologico a quello positivo della maturità nella chiarezza identitaria propria del combattente che veglia sul confine dei valori perenni nella lunga notte della degenerazione progressista.

Ora che la consacrazione eroica vi è stata, grazie a Orbán, sul prato di Pontida alla vigila dell’anniversario che ricorda la vittoria della Lega Santa contro l’Impero Ottomano a Lepanto il 7 ottobre 1571; dopo che sul “sacro suolo” sono risuonate le parole di un mito assoluto della destra novecentesca qual è stato Ezra Pound – formidabile e fortemente evocativo quel: “Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui”; dopo aver cantato Ragazzi di Buda, l’inno italiano dedicato ai giovani ungheresi che si ribellarono all’invasione sovietica nel 1956; dopo la chiusura rituale della manifestazione al grido: “Noi non molliamo mai”, che ha catapultato, indietro nel tempo di un gioco d’ombre proiettate sulla parete increspata della storia, la Pontida di oggi nella Reggio Calabria della rivolta del 1970, del “fascista” Ciccio Franco e del suo dannunziano motto: “Boia chi molla!”, si attende soltanto che i giudici di Palermo commettano la stupidaggine di condannare Salvini per sequestro di persona in danno degli immigrati clandestini ospitati sulla nave dell’Ong Open Arms. A quel punto la trasmutazione alchemica dell’eroe in icona resistenziale della guerra sovranista contro il nemico ontologico progressista, immigrazionista, multiculturalista, sarà compiuta.

Aggiornato il 10 ottobre 2024 alle ore 09:55