Israele contro Iran: l’occasione di Bibi

Israele sta vincendo sul campo la guerra contro l’asse del male. Benjamin Netanyahu sta sfruttando la sua ferrea ostinazione ad andare fino in fondo nell’azione di pulizia delle aree di confine dello Stato ebraico dalla insidiosa presenza dei nemici d’Israele. Prima l’intervento nella Striscia di Gaza per stanare e distruggere le milizie di Hamas (la coda del serpente); poi la mirabile operazione d’attacco per annientare le postazioni degli Hezbollah sul confine israeliano-libanese ed eliminare fisicamente tutta la sua dirigenza fino al vertice rappresentato dalla diabolica figura di Hassan Nasrallah (il corpo del serpente). Una strategia di lungo respiro attuata con pazienza per giungere a colpire il bersaglio grosso, la testa del serpente: l’Iran degli ayatollah. Le notizie che giungono dal terreno, in queste ore, ci avvertono che l’ora X si avvicina. Il regime di Teheran è uscito dal buco in cui si era rintanato per evitare a tutti i costi il confronto diretto con l’arcinemico israeliano. Dovendo dare un segnale di sostegno ai “proxies” del regime – Hamas a Gaza e in Cisgiordania, Hezbollah in Libano e Siria, Houthi nello Yemen – che combattono lo Stato ebraico e terrorizzano l’Occidente per conto del proprio dante causa, i capi a Teheran sono stati costretti a sferrare un attacco missilistico (181 missili di cui la maggioranza balistici) contro Israele di portata superiore all’azione meramente dimostrativa messa in scena la notte dello scorso 13 aprile. Tanto è bastato perché Netanyahu decidesse di pianificare una risposta contro l’Iran di portata devastante. Quanto ampia e su quali obiettivi non è al momento dato saperlo. Il Governo di Tel Aviv ha molte frecce al suo arco, deve solo scegliere. Potrebbe attaccare i siti di costruzione dell’arma nucleare. Potrebbe, invece, preferire una strategia di danneggiamento dei giacimenti petroliferi che recherebbe un danno finanziario di dimensioni non rimediabili alla malridotta economia iraniana.

Potrebbe puntare a distruggere infrastrutture in numero tale da paralizzare un Paese dilaniato dallo scontento sociale. Nel ventaglio delle opzioni che si offrono all’azione mirata dell’Idf (Israel Defense Forces)le forze di difesa israeliane – la più efficace potrebbe risultare quella che miri a far esplodere la protesta della popolazione contro il regime degli ayatollah. D’altro canto, nelle dichiarazioni del premier israeliano le tracce di un interessamento per aiutare le opposizioni a rovesciare il regime teocratico di Teheran sono più che evidenti. Se realmente fosse questo il target a breve-medio termine della “guerra di Bibi” tutto l’Occidente dovrebbe essergli per sempre grato, invece di ostracizzarlo come ha fatto in questi mesi con desolante miopia strategica e politica. Netanyahu ha nelle mani la preziosa opportunità di smantellare un luogo comune errato sul quale le cancellerie occidentali hanno costruito e mantenuto vivo per anni il loro approccio ai rapporti con il regime degli ayatollah: considerare l’Iran un monolite statuale (popolo e Governo), strutturato sullo sciismo teocratico dell’ideologia khomeynista. Nulla di più lontano dalla realtà. Nel Paese che i nostri progenitori chiamavano Persia – derivato dal greco Persís (Περσίς) – il potere centrale è nelle mani di un’aristocrazia teologica fatta di chierici duodecimani (imamiti) – una sorta di casta sacerdotale – che lo esercitano attraverso l’azione operativa di un braccio secolare: Il Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica, o Sepâh. I suoi membri, conosciuti come pasdaran, gestiscono un complesso militare-industriale in grado di controllare ampi settori dell’economia civile, oltre agli stili di vita della popolazione.

Dal Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica dipende la forza paramilitare del basij. I pasdaran sono accreditati come i principali fautori del nazionalismo imperiale iraniano, sostenuto politicamente dall’ala del clero sciita più radicale. Tale posizione di primazia nella gerarchia dei poteri interni alla repubblica islamica ha generato nel tempo forti attriti con i vertici dell’esercito regolare. Elemento di importanza centrale ai fini della valutazione di un possibile cambio di regime. D’altro canto, stante la capillarità dell’apparato repressivo di cui si avvale il regime teocratico, non sarebbe minimamente ipotizzabile che la sola protesta popolare possa portare a un rovesciamento dell’attuale potere senza la collaborazione attiva di almeno una delle istituzioni cardine dello Stato iraniano. C’è poi da stimare il crescente disagio che il ceto medio manifesta sempre più esplicitamente per la grave situazione economica del Paese. Lo scorso anno le entrate fiscali – che reggono il sistema di welfare – derivanti dalla vendita all’estero di prodotti petroliferi hanno subito una brusca frenata per la caduta di domanda di materia prima energetica dell’acquirente cinese, la cui economia è in rallentamento.

L’inflazione ha toccato a dicembre del 2023 il 40,2 per cento (agosto 2024, 31,6 per cento) (fonte: Trading economics). L’effetto inflattivo ha fatto lievitare il prezzo di alcuni beni alimentari del 90 per cento. Il tasso di crescita tendenziale del Pil per il 2024 è del 2,9 per cento. Il Pil in euro a prezzi correnti nel 2023 è stato di 240miliardi (fonte: Governo italiano-Osservatorio economico Info Mercati esteri) su una popolazione di 89,5 milioni di abitanti. La divisa nazionale, il riyal, è in continuo deprezzamento (il tasso di cambio euro riyal iraniano registrato ieri nel mercato internazionale dei cambi è di un euro -46.374,7 del Tasso interno di rendimento) e ciò provoca la fuga dei risparmiatori, appartenenti principalmente alla media-alta borghesia iraniana, verso beni rifugio e valute estere. Il segnale della crescente delegittimazione del ceto politico dominante è stato dato dal tasso di affluenza alla recente tornata elettorale che si è fermato sotto il 40 per cento, in particolare nelle aree urbane. C’è da considerare anche l’aspetto generazionale. I nati nel nuovo secolo guardano con sempre maggiore insofferenza alle imposizioni repressive del regime sugli stili di vita. Al riguardo, la prima fila della protesta è assicurata dalle donne che non tollerano più la mancanza di libertà causata dalle restrizioni ordinate da un regime profondamente misogino. Non mancano, inoltre, le tensioni etniche di recente sfociate in scontro aperto. È accaduto nella provincia sud-orientale del Sīstān e Balūcistān al confine col Pakistan, a maggioranza sunnita hanafita, dove lo scorso gennaio, per sedare la rivolta in corso, Teheran ha inviato l’aviazione a bombardare. Al Nord, a ridosso della regione caucasica al confine con l’Azerbaigian, vi è un ampio insediamento di popolazioni di etnia azera stimato tra i 15 e i 20 milioni di cittadini che è un’autentica spina nel fianco del regime iraniano per le sue tentazioni separatiste, nonostante che l’attuale guida supremaAli Khamenei, provenga da famiglia azera.

Tutti questi fattori critici concorrono a sostanziare un potenziale pericolo per gli ayatollah. Ora, se la minaccia in nuce non ha ancora trovato riscontro nella realtà è perché la contestazione al regime soffre di due limiti esiziali: la mancanza di una leadership carismatica unificante – come fu quella di Ruhollah Khomeyni per il buon esito della rivoluzione del 1979 – e l’endemica litigiosità delle componenti, interne e della diaspora, in cui è frammentata l’opposizione. Tuttavia, se l’opera di scardinamento del regime dall’interno che Israele sta con tutta evidenza pilotando – ne è prova l’assistenza prestata da “quinte colonne” iraniane alle forze israeliane per eliminare fisicamente i capi politici di Hamas e di Hezbollah – dovesse raggiungere i vertici dell’esercito regolare iraniano a quel punto la possibilità di un cambio di regime per implosione dell’attuale sistema di potere sarebbe concreta. Al contrario, un’iniziativa bellica frontale, da guerra totale, da parte di Israele potrebbe sortire l’effetto opposto a quello desiderato: un ricompattamento della popolazione intorno alla figura della guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, nel nome della difesa della patria dall’aggressione di una potenza straniera. Sarebbe opportuno, in momenti concitati come questi, che non si perdesse di vista la stella polare della missione che Israele sta svolgendo anche nell’interesse di un Occidente intorpidito dalla sua debolezza ideale e spirituale, che resta l’eliminazione definitiva non dell’Iran ma del regime degli ayatollah e dei suoi sgherri, i pasdaran. Finora Benjamin Netanyahu non ha sbagliato un colpo. La speranza è che continui la guerra su questo registro, percorrendo la strada del logoramento delle già precarie forze di reazione dell’establishment iraniano. “Bibi” tenga duro perché la luce in fondo al tunnel comincia a vedersi.

Aggiornato il 07 ottobre 2024 alle ore 09:28