La mina vagante

Sassolini di Lehner

Il vile affarista liquidatore dell’industria pubblica italiana” – la definizione non è mia, ma di Francesco Cossiga – s’incontra con Marina e Pier Silvio Berlusconi. Ad organizzare la riunione è la solita mina vagante infiltrata nel centrodestra, la quinta colonna, nome in codice: Gianni Letta.

Non si tratta di un gentile invito a prendere tè e biscottini, discettando sul maltempo, bensì di un velenoso pasticcino destinato al governo Meloni.

Marina titilla la sinistra, esigendo più diritti non per madri, anziani, malati, chi fa lavori usuranti, ma per gli esibizionisti targati Lgbtqia+.

Pier Silvio, tentato dal miraggio del padre leader politico  ̶  ma non tutti i figli ereditano le potenzialità del babbo  ̶  dovrebbe, in prima battuta, sgomberare il terreno dall’ingombrante Giorgia.

Il suo programma politico è tutto nello spot: Mediaset sostiene la diversità e l’inclusione.

Mario Draghi, il diverso incluso, potrebbe essere il guastatore giusto, per asfaltare la coalizione di governo.

Intanto, Antonio Tajani, trattato come entità superflua, se non inutile, non viene informato e tantomeno chiamato a partecipare all’incontro. Quanta ingratitudine, visto che il fedele Antonio s’era appena sobbarcato il compito di buttare là per conto della ditta l’intempestiva sortita sullo ius scholae.

Gianni Letta ha, così, prefigurato un futuro, dove Tajani scompare o vale come il due di spade quando regna coppe.

Chi è Gianni, l’amicone di tutti quelli che contano o conteranno?

È l’immarcescibile gramigna, il presenzialista che non manca mai neppure nelle sagre del pecorino con le fave, basta che ci siano frotte di fotografi e reporter.

Dopo la disastrosa stagione come direttore del quotidiano capitolino “Il Tempo”, trovò rifugio in Fininvest ed in Forza Italia, senza rinunciare ad altre succulente opportunità, tipo lavorare per la banca d’affari più famosa (per alcuni, come Cossiga, “famigerata”) del mondo, cioè la Goldman-Sachs. 

Guarda caso, è la medesima postazione del potere finanziario globale, da cui proviene, sbarcando dal “Britannia”, Mario Draghi, attuale interlocutore di Marina e Pier Silvio.

L’aver quasi affondato il prestigioso quotidiano, che ai tempi di Letta veniva ribattezzato “Titanic news”, è, però, nulla rispetto alla negatività, sia nei riguardi di Silvio Berlusconi, sia del partito creato dal nulla dal Cavaliere.

All’inizio, Berlusconi s’era circondato di persone di ottimo livello con il proposito dichiarato, coinvolgente ed affascinante, di avviare finalmente la rivoluzione liberale di contro all’alto Medio Evo catto-comunista.

Il progetto comprendeva anche una profonda riforma della giustizia, divenuta dal caso Tortora in poi, in ispecie con “mani pulite”, già slogan della bolscevica Čeka di Feliks Dzeržinskij, il vero, unico Potere della Penisola.

La rivoluzione liberale via via si ridusse a cantilena verbosa sempre rimandata al domani e così la riforma della giustizia precipitata a promessa mancata – ricordo il Guardasigilli Angelino Alfano, retore vacuo, che la strombazzava due volte al dì – anzi degradata a chiacchiericcio.

Tra i nuovi consiglieri di Berlusconi, succeduti all’originaria pattuglia di intellettuali, di storici, di studiosi, tutti emarginati, il più ascoltato e determinante fu Gianni Letta, il teorico del rimandare al domani ciò che avrebbe dovuto essere realizzato sin da ieri, l’assertore dell’amicalità estesa, evitando ogni iniziativa idonea ad incidere, ergo a suscitare pericoli e rivalse.

La riforma della giustizia fu, così, ridotta ad autolesionistici provvedimenti legislativi ad personam, a garanzia di Silvio, che, secondo i filosofemi del quieto vivere lettiano, avrebbe guadagnato la benevolenza dell’Ordine asceso a Potere, reso tranquillo e rassicurato, essendo sempre meno disturbato da serie proposte riformatrici.

Così, supposero i Letta vicini a Silvio, benché il vero Potere, davanti all’avversario parolaio, inconcludente ed impotente, seguisse l’esortazione di Mao Zedong: Bastona il cane che affoga.

Posso raccontare un episodio emblematico: incontrai in quel di Sapri un magistrato di corte d’Appello, il dottor Francesco Flora, uno dei rari togati che teneva sul comodino Costituzione e codici, piuttosto che l’opera omnia di Vladimir Il'ič Ul’janov. Notai in lui un malessere evidente. Gli chiesi la ragione. Alla fine, sopraffatto dalle mie insistenze, mi confidò l’evento che l’aveva oltremodo nauseato: un alto magistrato, stratega raffinato, avendo compreso che il vero pericolo per il governo del Pdl non erano le opposizioni di sinistra, bensì Gianfranco Fini, il giorno prima, pubblicamente davanti a giovani magistrati, formulò parole di lode per il neonato partito di Fini, esortando gli astanti a sostenerlo.

Insomma, si trattò di veri e propri comizi all’interno del sacro tempio della magistratura salernitana contro Berlusconi ed a favore di Fini, l’unico, secondo l’alto magistrato, in grado di far cadere il governo.

Telefonai subito a Silvio. 

Purtroppo, era all’estero. 

Allora, feci lo sbaglio, che non mi perdonerò mai, di chiamare Gianni Letta, raccontandogli l’accaduto e annunciando che avrei scritto subito un articolo, essendo certo dell’affidabilità della fonte.

Letta mi scongiurò di non farlo, che avrei creato problemi, assicurandomi che ci avrebbe pensato lui… con le sue conoscenze.

Io, emerito idiota, mi fidai.

Quando Berlusconi fu condannato, compresi quanto fossi stato bischero e complice involontario della suicida prassi lettiana.

Con la bile in libera uscita chiamai Silvio, rendendolo edotto dell’accaduto. 

Silvio rimase colpito.

Trovandosi Letta al suo fianco, me lo passò. 

Gianni mi disse di non ricordare niente. 

Eppure, il nome di quell’alto magistrato, proprio in quel momento, bruciava la pelle di Silvio. Fui preso da ira funesta con me stesso, quindi giurai eterno rancore verso il nuovo smemorato di Collegno, infingardo più di un marito, che avendo colto la moglie in flagranza di coito col vicino di casa, dichiari, l’anno dopo, di non ricordare quel particolare accadimento. 

La mina vagante ora si aggira intorno a Giorgia.

Aggiornato il 18 settembre 2024 alle ore 09:51