Libertà (d’informazione) va cercando, ch’è sì cara

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è un faro di certezze nelle nostre vite. Nel senso che essere faziosi, parteggiare per una parte politica non mancando di colpire l’altra in ogni occasione possibile, mostrare sospetto tempismo nel dispensare ammonimenti ex cathedra, testimoniano oltre ogni ragionevole dubbio come si possa rivestire legittimamente la funzione arbitrale che la collocazione sullo scranno più alto delle istituzioni repubblicane gli assegna e, al tempo stesso, essere un politico “politicante”. Il Capo non si smentisce mai e le sue invettive contribuiscono a tenere effervescente la nostra pressione arteriosa, che non è un dramma in un periodo di estrema calura dove il rischio collasso è sempre in agguato. L’ultimo episodio che ci ha fatto schizzare il sangue al cervello? Il discorso sulla libertà d’informazione pronunciato l’altro giorno alla presenza delle rappresentanze dei giornalisti in occasione della cerimonia al Quirinale della consegna del ventaglio. Stavolta più che il contenuto è stato il tempismo a meritare particolare attenzione. Queste le esatte parole del Capo dello Stato: “Ogni atto rivolto contro la libera informazione diventa un gesto eversivo dei confronti della Repubblica”. Come non essere d’accordo?

Tuttavia, il nesso con l’aggressione al cronista de La Stampa di Torino per mano di due brutti ceffi iscritti a CasaPound è evidente. Da qui la domanda: se è vero – ed è vero – che ogni attentato alla libera informazione costituisca un atto eversivo, perché mai le stesse parole non sono state pronunciate con altrettanta solennità – o non sono state pronunciate affatto – quando lo scorso maggio alcune giornaliste Rai, che non avevano aderito allo sciopero proclamato dall’Usigrai, il sindacato dei giornalisti dell’emittente radiotelevisiva pubblica, sono state aggredite e pesantemente insultate? In particolare, la conduttrice del Tg1, Laura Chimenti, è stata fatta oggetto sui social di minacce di morte? Dov’era il Presidente della Repubblica quando venerdì 5 aprile 2024 i “pacifici” militanti di un collettivo bolognese, radunati fuori del Tribunale della città felsinea per protestare contro l’arresto di un loro sodale, hanno circondato e minacciato con insulti sessisti la collega Chiara Caravelli de Il Resto del Carlino, costringendola ad abbandonare il luogo del presidio? Caravelli avrebbe voluto fare solo il suo mestiere di cronista, ma le è stato impedito con la violenza. E dov’era il capo dello Stato quando lo scorso 17 gennaio Andrea Romoli del Tg2, che si era recato con una troupe della Rai nelle vicinanze del villaggio sloveno di Podpeč poco distante dal confine italiano per realizzare un reportage su una foiba in cui, nel 1945, i comunisti titini avevano gettato centinaia di italiani residenti in zona al solo scopo di pulizia etnica, si è ritrovato le autovetture di servizio con targa italiana distrutte, vandalizzate da personaggi che non gradivano la sua presenza in loco mentre le auto a targa slovena non sono state toccate? A sommo sfregio della buona iniziativa della Rai – e della memoria delle vittime italiane infoibate – Romoli ha rinvenuto divelte due croci di legno poste in prossimità dell’apertura della foiba.

Una possibile risposta su dove fosse il Capo dello Stato, in occasione di quegli accadimenti specifici e di altri che ugualmente hanno riguardato elementi del mondo dell’informazione non allineati al pensiero unico progressista, l’abbiamo. Era impegnato a studiare il pensiero del filosofo e visconte francese, vissuto nella prima metà dell’Ottocento, Alexis de Tocqueville. Lo proverebbe il fatto che l’altro giorno ne abbia citato una massima: “Democrazia è il potere di un popolo informato”. Splendida definizione di democrazia e appropriata menzione da parte di Mattarella. Peccato solo che l’aforisma tocquevilliano gli sia tornato in mente solo di recente. Non sarebbe stato il caso pronunciarlo anche quando il 20 maggio 2023, al Salone internazionale del Libro di Torino, un gruppo di scatenate appartenenti a Extinction rebellion e al collettivo femminista Non una di Meno hanno fisicamente impedito alla ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità nel Governo Meloni, Eugenia Roccella, di parlare del suo libro?

Il presidente Mattarella ama la Costituzione, ne siamo certi. Ma siamo curiosi. Cosa ha pensato il 22 ottobre 2022, quando ha visto in televisione le scene di guerriglia urbana provocate dai collettivi studenteschi dell’Università La Sapienza di Roma per proibire con la forza che si svolgesse il convegno organizzato da Azione universitaria, associazione studentesca di destra, a cui erano stati invitati come relatori Daniele Capezzone, oggi direttore editoriale del quotidiano Libero, e Fabio Roscani, deputato di Fratelli d’Italia e presidente di Gioventù nazionale? Quale fremito – se c’è stato – ha attraversato la specchiata coscienza del nostro Presidente quando ha ascoltato un facinoroso contestatore urlare al microfono: “Fratelli d’Italia odia le donne, le soggettività libere, i migranti. E odia i poveri. È razzista ed è fascista. Azione universitaria può pensare di pulirsi la faccia da tutto questo, ma noi sappiamo chi sono veramente. E non li faremo passare”?

Che la massima di de Tocqueville valga per molti, ma non per tutti, a parafrasare il claim di una nota casa produttrice di vini liquorosi? E non debba valere per Capezzone e per i suoi degni compari, giornalisti di destra, che ancora circolano liberamente senza vergognarsene? Certo, un discorso serio e approfondito va fatto sulla libertà di stampa e sui limiti che essa deve darsi quando sono in gioco le vite e l’onorabilità delle persone. Troppo spesso accade che persone innocenti subiscano danni morali, psicologici e d’immagine irreparabili dalla diffusione di notizie errate sul loro conto o da ricostruzioni giornalistiche tendenziose sui loro comportamenti, sia pubblici sia privati. Il nostro pensiero non può che andare a una delle vittime illustri di mala informazione: l’ex Presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Leone era un galantuomo ed è stato anche uno dei più preparati e prolifici – nella produzione degli atti di propria competenza – Capi di Stato che la Repubblica abbia avuto. Eppure, la vita di Giovanni Leone fu fatta a pezzi grazie all’accusa infamante di corruzione, scaturita da un’inchiesta giornalistica rivelatasi del tutto infondata. Era il 1976, ma lo “Scandalo Lockheed” tenne banco nelle vicende della politica del tempo fino al 1978, scuotendola alle fondamenta ben prima dell’avvento di Mani pulite. Il punto focale dell’indagine era centrato sull’individuazione del grande corrotto, un politico italiano, che avrebbe favorito, in cambio di tangenti, l’acquisto per l’Aeronautica militare di aerei Hercules C-130 di fabbricazione della Lockheed. Il nome in codice del grande corrotto sarebbe stato, in base ai documenti rinvenuti, “Antelope Cobbler”.

I primi sospetti riguardarono Aldo Moro. L’accusa, però, decadde grazie a un’ordinanza della Corte costituzionale che dispose l’archiviazione dell’indagine a suo carico. Curiosa circostanza: l’atto della Corte che scagionava Aldo Moro giunse tredici giorni prima che venisse rapito dalla Brigate rosse. Smontata la “bufala” di Moro Antelope Cobbler, toccò a Giovanni Leone essere preso di mira dall’inchiesta condotta da L’Espresso e, in particolare, dalla giornalista Camilla Cederna, divenuta in seguito un’icona della sinistra radical-chic nonostante la colpa grave di aver raccontato balle sul coinvolgimento dell’allora Presidente della Repubblica e di aver gettato il fango di un disgustoso pettegolezzo su di lui e sulla sua famiglia.

Ma Giovanni Leone era un galantuomo d’altri tempi e il suo tratto composto, a tratti austero, non gli consentì di reggere all’accusa infamante. Si dimise da Presidente della Repubblica il 15 giugno 1978, con sei mesi d’anticipo sulla scadenza del mandato, spinto a lasciare l’incarico dalle forti pressioni esercitate dal Partito comunista italiano, ringalluzzito dagli esiti dell’inchiesta giornalistica. Leone si ritirò a vita privata. L’unica consolazione prima di morire fu di ricevere, in occasione della celebrazione in Parlamento del suo novantesimo compleanno, le pubbliche scuse di Marco Pannella e di Emma Bonino che, all’epoca dell’inchiesta de L’Espresso, furono tra i più implacabili accusatori.

Ecco, quando si dovrà parlare di diritto all’informazione lo si dovrà fare a partire dalle vittime innocenti con le cui vite distrutte un giornalismo cinico e spietato ha lastricato la strada della libertà di stampa. Ma non lo si farà certo aggrappandosi alle quaresimali a orologeria pronunciate con serioso piglio e sospetto tempismo tra gli ori e le passamanerie di sontuosi palazzi di Stato da colui che dovrebbe essere il supremo custode e garante dello spirito democratico della nazione.

Aggiornato il 26 luglio 2024 alle ore 10:01