Media, bugie e videotape

Hanno passato tre anni (almeno) a nasconderci la verità sullo stato di salute e sulle capacità cognitive del presidente Joe Biden. Accusando di propaganda putinista chiunque provasse a raccontare quello che vedevano i propri occhi o tentasse, anche sottovoce, di esprimere dubbi sulla narrazione dominante. Poi, appena la messinscena è crollata in diretta televisiva di fronte a tutto il mondo, è partita – all’unisono, con una potenza di fuoco che meriterebbe migliori cause – la guerra contro il loro stesso candidato. Colpevole di non essere più in grado di proiettare verso l’esterno quell’aura di inevitabilità che veniva ritenuta necessaria per battere Adolf Hitler. Pardon, Donald Trump.

Nel frattempo, hanno cercato in ogni modo di trovare una possibile alternativa alla scelta di Kamala Harris, la più naturale – ed economicamente conveniente – ritenendo, forse non a torto, che una vicepresidente estremista della California con il carisma di un coyote sotto anfetamina avesse poche chance di ribaltare la situazione negli stati-chiave del Midwest (Pennsylvania, Wisconsin, Michigan) e del Sud (Georgia, Arizona, Nevada). Hanno pensato a tutti: dai governatori di alcuni di questi swing State a Michelle Obama; da Gavin Newsom (un altro estremista della California, ma almeno presentabile) al ministro dei trasporti Pete Buttigieg; da Oprah Winfrey a Mitt Romney; da Topolino a Goldrake.

Intanto la disperazione cresceva. Perché i sondaggi non registravano soltanto il vantaggio repubblicano nella corsa alla Casa Bianca, ma vedevano incrinarsi il dominio democratico anche in stati considerati “sicuri” (Virginia, Minnesota, New Mexico, Maine, New Hampshire) e puntavano decisamente verso una possibile maggioranza Gop sia alla Camera che al Senato. Fallito questo patetico tentativo di doppio cambio in corsa, si sono rassegnati a far fuori Biden, non come presidente (per carità) ma come candidato. Tirando fuori la povera Kamala dal cassetto in cui l’avevano infilata dopo le sue prime, disastrose, uscite da vicepresidente. E incoronandola all’unanimità come nuova icona del progressismo mondiale. Affidandole il compito di arginare la marea montante del populismo putinista rappresentato da Hitler. Pardon, Trump. Anche in questo caso si sono mossi all’unisono, al di là e al di qua dell’Oceano Atlantico, come tante terminazioni nervose di un’unica mente collettiva. Con una capacità di coordinamento impressionante, che andrebbe studiata (soprattutto a destra) con estrema attenzione.

Adesso, dopo gli endorsement e le biografie truccate, arriveranno i primi sondaggi diffusi per dimostrare la ritrovata competitività dei democratici a livello nazionale (per smuovere qualcosa negli stati-chiave ci vorrà di più che qualche rilevazione farlocca). E, magicamente, il “fattore età” verrà nuovamente considerato rilevante, visto che ora penalizza Hitler. Pardon, Trump.

La verità è che queste elezioni americane si decideranno per pochi voti, negli Stati che abbiamo prima elencato, a prescindere dai temi dibattuti, dal contesto geopolitico o dai ticket in campo. Questo era vero prima del tracollo di Biden e sarà vero anche nei 100 giorni che ci separano dal 5 novembre. La società americana è polarizzata ormai da anni, in piena guerra culturale (qualcuno paventa addirittura la possibilità di una guerra civile) e in piena transizione da un modello bipartitico classico a uno strano ircocervo in cui le due forze tradizionali si stanno scomponendo e ricomponendo in qualcosa di profondamente diverso. Hitler – pardon Trump – è una conseguenza di questa destrutturazione, non la causa.

Ci sarà modo, nei prossimi mesi, di affrontare questi discorsi, dai quali dipende il futuro dell’Occidente. Per ora, ci basti ricordare che oggi Biden annuncerà al mondo perché si è ritirato e perché ritiene – contro ogni residuo barlume di buon senso – di essere in grado di continuare a governare il mondo libero, pur non riuscendo a leggere due righe da un teleprompter senza svenire. Aspettiamo con ansia questa rivelazione. Come attendiamo spasmodicamente il racconto che ne faranno i media che ci hanno ingannato finora, senza pudore e senza rispetto per il pubblico e per se stessi. Non basta comportarsi come i Borg di Star Trek per recuperare una credibilità ormai persa da tempo.

Aggiornato il 25 luglio 2024 alle ore 09:31