Violenza e politica: breve critica di un’endiadi

La violenza genera la politica o la politica genera la violenza? Antico l’interrogativo suddetto almeno quanto antiche sono la violenza e la politica che affondano le proprie radici in quel belluino istante in cui Caino assassinò il fratello Abele. I recenti avvenimenti statunitensi dell’attentato volto ad assassinare pubblicamente Donald Trump nel bel mezzo di una campagna elettorale – in quel Paese che si propone e si impone come la più grande e solida democrazia del mondo – sembrano riportare alla luce vecchie domande e ataviche inquietudini. Rispondere al predetto quesito in un così breve spazio è senza dubbio arduo, ma si può tracciare un perimetro critico di una problematica che silenziosamente, ma costantemente ha attraversato l’intera tradizione di pensiero politico e giuridico fin dall’antichità classica, condensandosi spesso espressamente nelle opere e nei giorni di alcuni grandi esponenti della filosofia occidentale che ne hanno sostenuto o criticato la relazione.

Per profilare adeguatamente la sedimentazione delle riflessioni plurisecolari sull’argomento occorre fin dal principio riconoscere e riassumere i due principali orientamenti su di esso: il primo definibile come “politico”; il secondo come “impolitico”. Secondo la prospettiva dell’orientamento politico, – oramai purtroppo minoritaria (ma non per questo non vera) che si snoda da Aristotele nel IV secolo avanti Cristo, attraverso San Tommaso d’Aquino e John Locke, fino a Benedetto XVI nel XXI secolo dopo Cristo – la violenza e la politica si escludono reciprocamente.

Intanto, l’uomo non può essere violento in quanto è per natura politico e proprio perché politico non può e non deve ricorrere alla violenza. In tale ottica l’uomo è per sua natura socievole e politico, cioè portato a relazionarsi con gli altri suoi simili, indotto a incontrarsi e non a scontrarsi con i suoi coevi. La comunità politica è data dall’unione pacifica e solidale degli uomini al fine di perseguire il bene comune (superiore e differente dalla semplice somma dei singoli beni individuali e diverso dal mero bene collettivo). Le vie proposte per raggiungere il bene comune possono essere molteplici ovviamente, e in ciò risiede la dialettica politica tra le diverse parti della comunità che però, pur ciascuna nella propria specificità, si legittimano e si riconoscono reciprocamente per l’inderogabile cogenza della comune natura relazionale e al fine di mantenere la pace sociale e la sicurezza interna dello Stato.

Così la violenza è esclusa fin dal principio, è disinnescata dall’interno stesso dell’uomo e della comunità che certo può usare la forza – come per punire coloro che si rendono colpevoli di misfatti e reati volti a turbare o violare la pace sociale – ma che è sempre e comunque distinta dalla violenza in quanto contemplata e commisurata dall’ordine legale e dalla razionalità giuridica che devono proteggere in modo diretto i beni fondamentali della comunità, cioè la vita, la libertà e la proprietà, e, in modo indiretto, lo Stato in quanto tale. All’interno di questo primo indirizzo di pensiero se c’è violenza non c’è politica, e, per converso, se c’è politica non c’è violenza.

Secondo la prospettiva dell’orientamento impolitico, invece, esiste una strettissima correlazione tra violenza e politica, tanto che non può darsi l’una senza l’altra e viceversa. Anche in questo caso esiste un lunghissimo e risalente filone di pensiero che percorre esattamente questo sentiero: dal sofista Trasimaco nel V secolo avanti Cristo, attraverso Niccolò Machiavelli, Thomas Hobbes, Jean-Jacques Rousseau, Karl Marx, fino a giungere a Lenin nel XX secolo dopo Cristo. In questa seconda accezione dell’esistenza, la natura umana è intrinsecamente e irrimediabilmente malvagia, per cui non può aversi politica se non mediante la violenza e la violenza, a sua volta, diventa lo strumento prescelto ed esclusivo per fondare, legittimare e tenere insieme ogni istanza politica cominciando dalla comunità e dallo Stato. Nella seconda linea di pensiero, cioè quello definito impolitico, tuttavia si celano diverse difficoltà.

In primo luogo: prolungando tale linea ideale, addirittura, lo stesso Stato può venire inteso come espressione della violenza, come accaduto nel pensiero di Hobbes il quale sosteneva tale evenienza come positiva, o come accaduto nel pensiero degli anarchici da Michail Bakunin a Pëtr Alekseevič Kropotkin per i quali tale evenienza era sostanzialmente negativa. Irrigidendo, come più volte occorso nel tempo, la visione del pensiero impolitico, insomma, lo stesso Stato rischia di trasformarsi, divenendo un mostro onnipresente e dal potere quasi illimitato come i regimi totalitari del XX secolo, o il nemico da combattere e annientare come sostenuto dagli esponenti della tradizione anarchica.

In secondo luogo: nella prospettiva del pensiero impolitico si stravolge sostanzialmente la dialettica politica tipica della fenomenologia democratica poiché si trasforma l’“inimicus”, cioè l’avversario, in un “hostis”, cioè un nemico. Se il rivale politico è identificato soltanto come nemico, esso inevitabilmente va combattuto con qualsiasi mezzo fino alla sua totale sottomissione o eliminazione. Il nemico deve essere escluso dall’agone politico e non ci può essere con lui né dialogo, né confronto, poiché la politica non è più intesa come il perseguimento del bene comune, ma come lotta di parte, guerra partigiana. In tal senso Carl Schmitt, nella sua Teoria del Partigiano, non a caso ha rilevato come “la guerra dell’inimicizia assoluta non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze”. Il nemico viene così degradato moralmente, delegittimato, demonizzato dinnanzi all’opinione pubblica e combattuto con ogni mezzo legale o illegale, perché dall’eliminazione del nemico – in quanto razza avversaria, in quanto esponente della classe degli oppressori, in quanto contrario alla volontà generale – dipende la salvezza della parte che incarna il bene assoluto contro il male assoluto.

Il nemico è il male assoluto in quanto l’altra parte – la razza eletta, o la classe oppressa, o gli adepti di questo o quel sistema di pensiero – è costituita dagli eletti che incarnano il bene assoluto. Non è un caso che esistano delle notevoli similitudini tra il pensiero impolitico e l’Islam, come si è avuto modo di accennare in passato. In tale seconda prospettiva, allora, la violenza diventa un elemento costitutivo della dimensione politica, la violenza viene celebrata come un connotato intrinseco della politica e l’una finisce per identificarsi con l’altra. In questa direzione il rivale politico è sempre dipinto come un terribile pericolo per la comunità che proprio per questo deve essere limitato, evitato, o meglio, eliminato, poiché da una parte – la propria – c’è il bene assoluto, mentre dall’altra – quella del nemico – c’è sempre il male assoluto che non può e non deve prevalere. Ecco perché – incidentalmente sia riconosciuto – è proprio all’ombra di questa seconda visione che sono storicamente sorti i diversi e molteplici “messianismi ideologici” che di volta in volta avrebbero dovuto assicurare la salvezza dell’intera umanità, come, per esempio tra i tanti, la rivoluzione proletaria del XIX-XX secolo.

Il nemico, dunque, non può essere accettato tramite la mediazione politica, ma deve essere espulso dall’orizzonte della politica stessa anche e soprattutto con mezzi violenti, poiché battere il male assoluto diventa un fine a sua volta assoluto, come ha scritto Alain De Benoist per il quale, infatti, “un fine assoluto giustifica il ricorso a qualunque mezzo. Per terribili che siano, questi mezzi diventano accettabili a confronto con il carattere sublime e con l’ideale incommensurabile dell’obiettivo cercato. La grandezza dello scopo giustifica il fatto di essere implacabili nei confronti di chiunque ne ostacoli il raggiungimento, di opporgli un odio ossessivo (...). In questa visione manichea, dove la diversità all’interno di un mondo unico è sostituita dall’opposizione inconciliabile tra due mondi, la totalizzazione del bene esige la totalizzazione del male, ossia una unificazione non meno arbitraria di tutto ciò che, per le ragioni più diverse, si oppone al bene unificato. L’avversario viene dunque subito posto dalla parte del non-essere (…). La sua soppressione non è soltanto resa necessaria dalle condizioni della lotta, lo è anche dal punto di vista dei principi”.

Ed è proprio su questa seconda visione – dell’uomo e della politica – che si basa in larghissima parte l’odierna piattaforma ideologica del cosiddetto progressismo occidentale, al di là come al di qua dell’Atlantico. La diversità profonda tra il primo orientamento, politico, e il secondo, impolitico, tuttavia e in conclusione, delinea quella sottilissima, spesso quasi impalpabile e impercettibile, ma pur sempre esistente, differenza tra la democrazia e la tirannia, tra lo Stato di diritto e lo Stato totalitario, tra la civiltà del diritto e la barbarie della sua negazione, tra la vita e la morte.

Aggiornato il 17 luglio 2024 alle ore 09:50