Quello che Fanpage non sa

Mozione d’ordine: perché non decidiamo di piantarla con l’imbarazzo e la preoccupazione per quel che è uscito dall’inchiesta di Fanpage sui sentimenti fasci-nazisti e antisemiti manifestati in privato da alcuni virgulti di Gioventù Nazionale, vivaio della futura classe dirigente di Fratelli d’Italia? Davvero si pensa che un Francesco Cancellato qualunque sia stato in grado di scoprire il segreto del Graal, custodito nelle segrete di Via della Scrofa a Roma? Per pietà, siamo seri! L’osannato (dalla sinistra) lavoro d’indagine del quotidiano on-line non è altro che spazzatura raccolta con modi discutibili, ritrattata e confezionata per un riutilizzo politicamente mirato.

Ciò detto, proviamo a entrare nel merito di ciò che abbiamo visto della proiezione rubata sui vizi privati della nuova leva meloniana. Una doverosa premessa: non intendiamo giustificare alcunché. Tuttavia, provare a rimettere le cose al posto giusto è un imperativo della coscienza che, si auspica, il potere progressista non voglia negarci. Ora, la critica più appropriata che si possa rivolgere a Cancellato e ai suoi, di là dal biasimo per i metodi usati, è quella di pressapochismo. Fanpage ha scorto qualcosa ed è corsa a mostrarla senza provare a capirla e ancor meno a spiegarla. E questo sarebbe giornalismo? Intendiamoci, anche a destra esiste un fenomeno che Stenio Solinas definirebbe di “cretinismo”. Quelle immagini rubate, che mostrano dei ragazzi e delle ragazze esaltarsi al saluto romano o nel pronunciare idiote espressioni razziste e antisemite, restituiscono la fotografia di una contraddizione irrisolta nella storia della destra degli ultimi decenni. I protagonisti inconsapevoli dei video scimmiottano gesti e comportamenti, ripetono luoghi comuni e motti senza comprenderne il significato. Perché? Banalmente, ripetono quello che hanno sentito dire dai “camerati” adulti. Allora la domanda è: perché vive ancora nelle viscere del partito nuovo l’anima del neofascismo nostalgico? La gioventù di destra si è riconosciuta ab initio nello spirito e nelle sorti di una comunità di destino. Per tale appartenenza i suoi militanti, che hanno vissuto la fase adolescenziale-giovanile a cavallo degli anni Sessanta/Ottanta, sono stati condannati a subire l’isolamento sociale dalla “conventio ad excludendum” concordata dalle forze del cosiddetto arco costituzionale contro il Movimento Sociale Italiano.

La condizione di una diversità antropologica, da esuli in patria – la definizione è di Marco Tarchi – rispetto alla maggioranza dei giovani del tempo ha spinto quel mondo a rifugiarsi nella pratica di un apparato rituale-simbolico che gli consentisse la decodifica della realtà quotidiana. La riscrittura degli stilemi della retorica del “nostalgismo fascista” è servita da strumento di comunicazione per veicolare non soltanto contenuti ideologici ma anche stati d’animo, pulsioni, sentimenti condivisi. Il braccio teso, la cerimonia del “presente” alle celebrazioni per i camerati caduti, il saluto dei militi di Roma, il Sieg Heil, non hanno alcuna attinenza col significato che ebbero in epoca fascista e hitleriana quando erano mezzi di trasmissione di contenuti reali. Essi, invece, diventano evocativi di una rivendicazione identitaria legata a doppio filo a una sindrome collettiva da “naufraghi” o, per dirla con Julius Evola, da “uomini e le rovine” vissuta da una gioventù proiettata alla totale negazione dei valori portati dalla modernità.

A nostro giudizio, è questo il cuore del problema. Le “cavolate” udite oggi sono dirette discendenti della mancanza di volontà del Msi di mettersi in discussione e trasformarsi cogliendo lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Ciò che è mancato agli eredi dell’ultimo fascismo è stato di non avere avuto, dal dopoguerra, un personaggio forte di riferimento che si assumesse la responsabilità storica della transizione di quel mondo e di quel popolo, depositario di una sconfitta senza appello decretata dalla Storia, verso qualcosa che riuscisse a stare con pari dignità nella dinamica democratica. I comunisti ebbero Palmiro Togliatti che, dopo aver neutralizzato l’ala insurrezionale filo-sovietica interna al partito guidata da Pietro Secchia, pianificò e avviò la transizione del Partito comunista italiano dall’orbita dello stalinismo e dell’imperialismo sovietico al riconoscimento di una autonoma soggettività costruita e spesa tutta all’interno dell’Occidente capitalista. Enrico Berlinguer completò con successo il percorso che “il migliore” aveva delineato. Sull’altro fronte, Giorgio Almirante ebbe moltissimi meriti, ma non quello di lasciare che la gioventù missina andasse per la sua strada imboccando il cammino della modernità. E neanche a dire che le occasioni di cambiare rotta non si fossero presentate, perché non sarebbe la verità. I primi segnali di una gioventù di destra pronta a scavalcare gli steccati ideologici per entrare in contatto con il resto del mondo giovanile vi erano stati con il ’68. Nell’arcinoto episodio di lotta studentesca del 1° marzo 1968, ricordato come la “battaglia di Valle Giulia”, a sprangare i poliziotti – i medesimi dalla cui parte si schiererà Pier Paolo Pasolini – non vi erano solo i “cinesi” in rotta col Pci, sedotti dal pensiero di Herbert Marcuse, ma anche i giovani adepti del repubblicano “eretico” Randolfo Pacciardi, riuniti sotto la sigla “Primula goliardica” e gli universitari missini del Fuan-Caravella. I vertici del partito la presero malissimo, al punto da mandare il 16 marzo 1968 i pugili dell’Accademia pugilistica romana, guidati da Giulio Caradonna e Giorgio Almirante, su ordine del segretario Arturo Michelini, a liberare con le maniere forti la facoltà di Giurisprudenza de La Sapienza dall’occupazione praticata anche da giovani di destra. Nonostante le pressioni provenienti dall’interno del partito a cercare di capire il disagio manifestato dai giovani, la leadership missina fu irremovibile nel non deviare dalla linea “legge e ordine”.

Duttilità che non vi fu neanche dieci anni dopo quando esplose il fenomeno dei “Campi hobbit”. La prima adunata nel giugno del 1977 a Montesarchio, in provincia di Benevento, fu preceduta da un evento che avrebbe dovuto segnare la transizione della gioventù di destra a un nuovo tempo. L’elezione del segretario nazionale del Fronte della Gioventù aveva visto la vittoria del candidato movimentista Marco Tarchi, ma Giorgio Almirante, avvalendosi del potere della decisione ultima in capo al segretario del partito, optò per consegnarne la guida alla sua creatura politica, benché nelle votazioni fosse risultata al quinto posto. È così che è cominciata la carriera di Gianfranco Fini. L’istanza che i giovani recano al raduno di Montesarchio è tutta nell’ambizione di compiere a destra una rivoluzione copernicana nell’approccio alla modernità. Una generazione che intende dialogare ed evolversi senza complessi d’inferiorità verso la parte avversa e nemmeno esibendo “clowneschi pugnal-fra-i-denti in attesa di un tram senza rotaie”. Per capire quei ragazzi desiderosi di entrare nel nuovo secolo senza il dovere di trascinarsi sulle spalle l’ingombrante carico della retorica neofascista occorrerebbe leggere i numerosi articoli apparsi in quel periodo su “La voce della fogna”, la pubblicazione periodica che sosteneva l’iniziativa di Marco Tarchi e Generoso Simeone e, soprattutto, leggere l’articolo-manifesto pubblicato da Stenio Solinas sul quotidiano “Roma” il 21 giugno 1977 in cui si tracciano i contorni della Nuova destra. È dalla campagna beneventana che, aprendo ai nuovi linguaggi giovanili veicolati dalla musica e dalla poesia, i ragazzi di destra prendono confidenza con le tematiche proprie della loro generazione. Tarchi stabilisce un collegamento con Alain de Benoist e con ciò che Oltralpe la destra intellettuale sta provando a costruire. Ma anche in questa occasione il partito si mette di traverso. Prima ostracizzando l’iniziativa. In secondo momento, nell’organizzazione dei Campi Hobitt II e III entrando a gamba tesa per “normalizzarli” sulla scorta degli ordini impartiti dalla leadership almirantiana.

Si obietterà: ma poi c’è stata la svolta di Fiuggi e Alleanza nazionale. Nulla di più ingannevole. La meritoria opera di transizione del Movimento Sociale Italiano verso una nuova destra di stampo neogollista, compiuta da Gianfranco Fini con il sostegno del lungimirante Pinuccio Tatarella, ha sofferto di un evidente limite: è stata un’operazione condotta dall’alto che ha intaccato la superficie ma non ha inciso nella coscienza profonda del partito, come invece avrebbe dovuto. La linea è sinceramente cambiata ed è parimenti vero che una nativa di Alleanza nazionale, qual è stata Giorgia Meloni, di ciò che era prima ne ha colto soltanto un’eco lontana. Tuttavia, mancando quel processo di metabolizzazione e di archiviazione dell’apparato mitico-simbologico che aveva retto l’identità di una comunità ghettizzata, relegata all’autoreferenzialità, nella prassi della militanza è rimasto vivo ciò che c’era. Vivo e tramandabile.

Per quanti sforzi Giorgia Meloni farà di espellere dal partito tutti coloro che usano espressioni scorrette, sarà come svuotare il mare con un secchio. Bisogna ritornare nelle profondità interstiziali del movimento e lì compiere quell’opera di rimozione che consenta di poter adottare convintamente nuovi linguaggi e nuovi codici interpretativi della realtà. Semmai potessimo dare un suggerimento alla Meloni, le consiglieremmo di non mandare in tivù personaggi giovani o provenienti da altre esperienze politiche a commentare i fatti documentati da Fanpage, ma di fare una telefonata a Marco Tarchi il quale oggi, sebbene preso nel ruolo di compassato accademico, potrebbe raccontarle sull’argomento tante cose interessanti.

Aggiornato il 03 luglio 2024 alle ore 09:39