Destra europea: divisi alla meta

I comunisti, nel nominare la destra, non usavano il singolare ma il plurale: le destre. Non avevano torto. Come negli ultimi due secoli a sinistra, anche dall’altra parte della barricata non è mai esistita – e forse mai esisterà – un unico luogo identitario sotto la cui bandiera favorire la convivenza tra organizzazioni partitiche dalle differenti sensibilità nella prassi politica.

Guardare il gran bazar che è il Parlamento europeo per credere. C’è una destra liberista, tecnocratica e laica in Renew Europe che va al seguito dei socialisti e dei progressisti. C’è una destra radicata nei valori cristiani della solidarietà sociale che sta nel Partito popolare europeo, incline a consentire che a dettare la linea del partito sulle alleanze e sulle policy dell’Unione europea sia la componente avanzata del Ppe – quella del popolarismo “illuminato” – convinta assertrice del dovere storico di appartenenza all’area del centrosinistra. Vi sono poi i conservatori di European Conservatives and Reformists Party (Ecr) – l’odierno partito europeo di Giorgia Meloni – nati nello spirito del conservatorismo anglosassone, grazie alla presenza massiccia dei deputati Tory britannici, ma progressivamente convertitisi a un conservatorismo di matrice continentale-mitteleuropea da quando i britannici sono andati via da Bruxelles a seguito della Brexit. E ancora, i sovranisti identitari di Identità e Democrazia (Id), gruppo che mette insieme, tra gli altri, il Rassemblement National di Marine e Le Pen e la Lega di Matteo Salvini. Per questo raggruppamento politico l’ideale è l’Europa delle patrie, delle tradizioni, delle identità territoriali, alternativa all’Unione governata dalla “razza padrona” degli eurocrati i quali tendono naturaliter a rispondere ai poteri sovraordinati agli Stati nazionali piuttosto che a onorare un mandato popolare del quale peraltro non sono mai stati democraticamente investiti. Finisse qui, sarebbe già un bel guazzabuglio da sbrogliare.

Non essendo l’Unione europea un soggetto unitario in grado d’incidere sullo scacchiere globale, le scelte assunte sotto l’etichetta comunitaria non sono altro che variabili dipendenti di una funzione reale, che è quella svolta dalle grandi potenze mondiali nella dinamica conflittuale di cui sono protagoniste nel governo del pianeta. Accade allora che, in sede europea, capi di porzioni infinitesime di umanità neghino il senso di un’appartenenza a una casa comune per dare vita a qualcosa che, a dispetto delle ridotte dimensioni numeriche delle popolazioni rappresentate, li veda protagonisti in un gioco globale infinitamente più grande di loro. Si potrebbe metterla giù così: candidarsi a essere la classica rotella che, per quanto minuscola, consenta ai grandi meccanismi di funzionare. Non è forse questa prospettiva, o semplicemente illusione, a spingere il presidente ungherese Viktor Orbán a cercare di farsi spazio che altrimenti mai potrebbe rivendicare in un contesto internazionale? Fino al giorno delle elezioni Europee si dava per scontato che la pattuglia degli eurodeputati di Fidesz, il partito di Orbán, entrasse nel gruppo dell’Ecr, attualmente presieduto dalla Meloni. Ieri l’altro, il leader ungherese si è recato in visita al nostro presidente del Consiglio dei ministri, a Roma, per comunicarle di persona che non accetterà l’invito a unirsi ai conservatori europei, ma farà altro. Verosimilmente, non andrà con Le Pen e Salvini, mentre appare credibile che provi, con gli estremisti di Alternative für Deutschland (Afd), a formare un nuovo gruppo di opposizione a tutto campo all’odierno impianto dell’Unione. Sulla carta i numeri ci sarebbero. La regola europea prescrive, per la formazione di un nuovo gruppo all’Europarlamento, l’adesione di non meno di 23 deputati provenienti da almeno un quarto degli Stati membri (7). I tedeschi di Afd ne recano in dote 15. A costoro si sommano i 3 eurodeputati nazionalisti filo-russi e anti-europeisti bulgari di Vazrazhdane (Rinascita). In predicato per un’eventuale adesione vi sono i tre neoeletti spagnoli di Se Acabó La Fiesta (La festa è finita), l’eurodeputato del Movimento Patriottico Democratico greco Vittoria (Nikh) e i due eletti del movimento irredentista romeno e populista nazionalista S.O.S. Romania. Per non contare i cosiddetti “cani sciolti”, che a Strasburgo hanno difficoltà a trovare una casa politica che li accolga, come i 2 eletti del partito ultranazionalista e neofascista slovacco Republika nonché i 6 membri dell’ultra-destra populista polacca di Konfederacja. Se il presidente ungherese si unisse a loro ne diverrebbe per forza di cose il leader indiscusso.

Intanto, Orbán ha motivato il voltafaccia a Giorgia Meloni con l’incompatibilità sua e dei suoi sodali con la presenza in Ecr di 5 nuovi membri del partito ultranazionalista romeno Alleanza per l’Unione dei Romeni (Aur). Sarà vero, ma la sostanza del rifiuto è ben altra. Orbán, che non è un rozzo politicante ma un raffinato stratega, è consapevole del fatto che il destino, il caso, o chiamatelo come volete, lo abbia collocato al cospetto di un tornante della Storia. Dal 1 di luglio comincerà il semestre ungherese di presidenza del Consiglio dell'Unione europea. Non sarà un periodo di routine perché, nell’arco temporale del mandato, è previsto un evento che potrebbe cambiare il corso mondiale degli eventi dei prossimi anni. Conosciamo la data in cui il fatto straordinario potrebbe compiersi: martedì 5 novembre. Luogo: Stati Uniti d’America. Oggetto: elezione del capo della principale nazione del mondo libero. Candidati: Joe Biden per i Democratici, Donald Trump per i Repubblicani. Effetti immediati: dovesse prevalere Biden, la guerra russo-ucraina continuerebbe con il pieno appoggio Usa – e a ruota quello europeo – a Kiev fino al ribaltamento sul campo di battaglia degli attuali rapporti di forza; dovesse vincere Trump, il sostegno Usa all’Ucraina verrebbe meno e Washington imporrebbe all’alleato una rapida soluzione per uscire dal conflitto anche a prezzo di inevitabili sacrifici territoriali. E Orbán? Lui è un tifoso di Trump e ha eccellenti rapporti con il potere moscovita.

Ora, se a Washington dal prossimo 6 novembre cambiasse il vento chi, in Europa, avrebbe titolo e credibilità sufficienti per riaprire un canale di dialogo con Vladimir Putin? Non certo chi, in Occidente, avrebbe preferito vederlo morto. E piuttosto che lasciare il pallino del negoziato nelle mani del doppiogiochista turco Recep Tayyip Erdoğan, il leader ungherese, legittimato dal ruolo temporaneamente coperto al vertice dell’istituzione europea, potrebbe proporsi da apripista. Perché ciò sia possibile, Orbán non può intrupparsi in gruppi parlamentari eccessivamente appiattiti sul filoatlantismo antirusso mentre un gruppo autonomo “filo-putiniano” alla luce del sole sarebbe per Orbán il miglior viatico per ribadire la sua credibilità di negoziatore imparziale agli occhi di una leadership russa che vive la sindrome dell’assediato.

Al momento, su questa strada non potrebbero seguirlo né la Meloni né la Le Pen, che battono altre piste. Orbán lo ha perfettamente compreso e, pur non facendone colpa alle sue antiche interlocutrici, ha preso commiato da loro. Non è scontato, però, che il piano di smarcamento avrà successo. Tuttavia, la sua condotta politica resta paradigmatica. Ci aiuta a comprendere una verità mestamente banale, ma con la quale bisogna fare i conti: in Europa le ideologie e le appartenenze culturali cedono il passo alle esigenze di posizionamento strategico dei leader che quelle ideologie e quelle culture dovrebbero impersonare, almeno sulla carta. È questo che nel Vecchio continente fa di un’ideale nobile – la Destra – una roba confusa, neanche si trattasse di una sartoria dove si confezionano abiti su misura, per tutte le taglie. Dalle più grandi alle più piccole. Per chi crede ancora nella forza delle idee, lo spettacolo che mettono in scena le destre continentali non di rado si trasforma in qualcosa d’inguardabile. E di ciò nessuno deve andarne fiero.

Aggiornato il 26 giugno 2024 alle ore 15:18