Se il centrodestra europeo vuole davvero governare – e se vuole farlo senza allearsi con la sinistra – i suoi partiti devono non solo guardare a ciò che li unisce, ma anche sforzarsi di produrre sempre nuovi elementi di unione, e a tal fine hanno bisogno di una strategia lungimirante che ne legittimi l’alleanza. In Italia, questa strategia e questa legittimazione sono sorte e si sono rafforzate con le molteplici esperienze di governo, nazionale e locale, e hanno trovato un punto archimedico di rilancio e di consolidamento nella persona di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio e leader dei Conservatori europei. Ora, un’analisi obiettiva indica che il presidente Meloni può realizzare sul piano europeo quella sintesi fra le diverse anime del centrodestra che oggi sta effettuando in Italia. Ne deriva la fondata ipotesi che Giorgia possa essere il federatore del centrodestra europeo.
Il voto europeo dice che, nell’insieme, la destra (popolari e conservatori) ha guadagnato consensi, e la sinistra (progressisti e radicali) ha perso. E, in linea di principio, questo è un buon segnale per l’Europa. Ma vincitori e perdenti non sono omogeneamente distribuiti né nell’arco politico (destra-sinistra) né nella localizzazione geografica. E questo è invece un segnale negativo, anche se tale disallineamento dipende dalla variegata configurazione geopolitica del continente.
Dal punto di vista generale, queste elezioni hanno evidenziato un problema non irrilevante per il sistema democratico, cioè la mancanza di una concreta alternanza fra orientamenti politico-culturali differenti ovvero, in termini pragmatici, fra destra e sinistra. Per conseguire la governabilità, i partiti sono costretti a formare alleanze anomale sul modello delle cosiddette «grandi coalizioni» tedesche. Questa anomalia politica produce una paralisi decisionale: conciliare posizioni di partenza molto diverse implica sempre infatti un compromesso, su ogni tema legislativo, ma se governare significa deliberare univocamente in base a una visione della società e del mondo, allora il compromesso fra due posizioni nettamente diverse è la negazione del concetto stesso di governo. Ecco dunque che la coalizione fra popolari e socialisti produce il paradosso di una governabilità senza governo: l’Unione europea non decide in senso autentico, perché le sue deliberazioni sono l’esito di un’estenuante transazione che elide le qualità specifiche di ciascuna prospettiva generando ibridi teorico-politici, con tutte le conseguenze negative che ricadono sui popoli e sui cittadini europei. La coalizione popolar-liberal-socialista è quindi un arnese pressoché inservibile, come una «forbice che non taglia» (riprendendo un’immagine usata da Ernst Jünger).
Detto fra parentesi, se la governabilità è un obiettivo imprescindibile, sarebbe possibile raggiungerla seguendo un’altra via, più complicata ma assai più vantaggiosa, analoga al sistema americano: due raggruppamenti si confrontano, uno vince e per cinque anni governa. Occorrerebbero una riforma elettorale e un cambiamento culturale, entrambi possibili, se ci fosse la volontà politica. La questione non è all’ordine del giorno, ma ci si potrebbe pensare.
Da un punto di vista più specifico e particolare, quello del centrodestra, queste elezioni hanno confermato la difficoltà aritmetica, ma anche politica, di formare una maggioranza parlamentare che unisca la destra e il centro. Il voto dice che la destra cresce e il centro è stabile, ma un’alleanza fra loro non è realizzabile sia perché i numeri in Parlamento sono insufficienti sia perché sussistono differenze strategiche sui due principali problemi oggi alla ribalta: il rapporto con l’alleanza atlantica e l’atteggiamento verso la Russia, i quali implicano un differente giudizio sulla guerra in Ucraina, sul ruolo della Nato e sull’essenza del regime putiniano, come pure una diversa valutazione sull’isolazionismo trumpiano e sulla guerra in Israele. In questo scenario, da un lato abbiamo dunque i partiti appartenenti al Ppe e quelli dell’Ecr; dall’altro quelli di Identità e Democrazia accanto ad altri come il partito del premier ungherese. Divisioni taglienti che emarginano la destra e favoriscono la sinistra.
Si tratta di distanze superabili a certe condizioni che possono però darsi solo con grande sforzo e nel corso del tempo, perché occorre un processo di maturazione che da un lato porti il Ppe a capire che sulla base della propria storia e per il futuro dei suoi valori esso deve abbandonare l’alleanza malsana con i socialisti e accorciare le distanze rispetto alla destra variamente declinata; e dall’altro conduca i partiti del sovranismo radicale a capire che la salvezza dell’Europa non verrà dalla Russia neosovietica e neozarista, ma dall’alleanza atlantica e dalla coalizione con il Ppe. Ecco, il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (con i vari partiti nazionali che lo compongono) ha capito tutto ciò e agisce di conseguenza, e perciò sta assumendo – sempre restando fedele ai propri princìpi, sempre restando di destra – una posizione centrale e determinante, perché assomma in sé tutte le caratteristiche politiche oggi necessarie a un governo di centrodestra e che invece gli altri due gruppi possiedono solo in parte.
Se l’obiettivo è la costituzione di un centrodestra europeo, l’esperienza italiana è senza dubbio il modello più valido sotto il profilo pratico e teorico. Dal 1993 al 2011, Silvio Berlusconi è stato il federatore del centrodestra sia perché rappresentava il punto di equilibrio tra nord e sud e tra Lega e Alleanza Nazionale, sia perché ha dato voce a un’idea che apparteneva a tutto il centrodestra e che era stata troppo a lungo dimenticata, l’idea della libertà in tutte le sue applicazioni.
Oggi, e già ben prima del 2022, il federatore è Giorgia Meloni, per quattro motivi storicamente fondamentali: rappresenta il punto di equilibrio fra l’istanza di autonomia locale e la funzione di orientamento centrale; ha perfezionato in un senso umanistico il rapporto fra economia e società nel quadro del libero mercato; rappresenta il concetto di sovranismo sostenibile come difesa dell’interesse nazionale nel pieno e leale rispetto delle alleanze internazionali; e infine accanto all’idea di libertà ha posto al centro del ragionamento politico l’idea di identità, criterio fondamentale per orientarsi nella politica e nel mondo, e riferimento essenziale per comprendere la storia nelle sue variazioni. Da molti anni infatti, identità è la parola chiave con cui Meloni interpreta la politica incarnata nella storia.
Partendo da queste premesse concettuali, Giorgia esprime oggi la più raffinata innovazione politica sulla base di un’accurata riflessione teorica. Ora, è possibile trasferire il modello italiano sullo scenario europeo? La diversità fra i due ambiti è tale che la risposta immediata sarebbe no, è impossibile. Tuttavia i principali temi e problemi oggi sul tavolo europeo sono, sostanzialmente, i medesimi che la politica meloniana ha risolto in Italia, e quindi l’operazione centrodestra su scala europea sarebbe possibile, se vengono superati alcuni ostacoli.
Della necessità che il Ppe riconosca l’incompatibilità fra la propria identità e quella socialista, e della necessità che il gruppo di Id comprenda che i suoi valori possono essere salvaguardati solo entro il quadro atlantico, abbiamo detto. Resta ancora un ostacolo, costituito dai liberali di Renew Europe, ai quali va finalmente mostrata la contraddizione in cui sono caduti alleandosi con il Pse. Liberalismo e socialismo sono sempre stati, teoricamente e storicamente, alternativi: le libertà personali ed economiche che il liberalismo difende vengono ridimensionate se non addirittura negate dalla visione socialista. E anche qui i Conservatori Riformisti di Giorgia Meloni risultano centrali, perché il versante liberistico di Ecr rappresenta la sponda perfetta per far convergere sul centrodestra anche i liberali di Renew Europe, svegliandoli dal sonno socialisteggiante in cui sono precipitati.
Insomma, da questa spettrografia storico-politica si vede che a stare all’opposizione dovrebbero essere i socialisti, teorici dell’accentramento e dello statalismo, sostenitori della tecnocrazia e della burocrazia, di tutte le forme in cui si articola l’ideologia del politicamente corretto. Dal voto emerge che il centrodestra avrebbe di fatto la maggioranza relativa sufficiente per governare in quasi tutti i principali Stati (Germania, Italia, Francia, Spagna, e poi Austria, Ungheria, Belgio, Romania), e tuttavia non riesce a formare una maggioranza all’Europarlamento.
Ci sono quindi tutti i presupposti affinché la strategia di Giorgia risulti vincente, perché la sua prospettiva, maturata anche in vent’anni di esperienza parlamentare nel centrodestra italiano, congiunge il lavoro nelle istituzioni e l’attività sul campo, l’azione parlamentare e l’impegno nella società, nel terreno in cui vivono le persone concrete con i loro problemi quotidiani. Questa è la formula di Fratelli d’Italia e, più estesamente, del centrodestra italiano. Ora, non è semplice applicare la medesima formula su scala europea, ma questa è senza dubbio la strada da percorrere. Non per caso infatti il presidente del gruppo Ecr al Comitato Europeo delle Regioni, Marco Marsilio, da poco rieletto governatore della Regione Abruzzo, ha avviato un capillare lavoro di tessitura fra realtà locali e gestione eurocomunitaria, individuando in questa connessione un possibile antidoto alla deriva tecnocratica di cui soffre l’Unione europea. Lavoro di cesello e nervi saldi, dai connotati profondamente diversi rispetto alle alchimie europarlamentari, perché rivolto alle persone prima che alle strutture.
Il conservatorismo liberale di Ecr esprime una legittima insofferenza per l’asfissiante controllo di Bruxelles, brutale negazione del principio di sussidiarietà a cui si erano ispirati i padri fondatori dell’Ue e analogo invece al centralismo burocratico di stampo sovietico. Ma al tempo stesso Ecr si sforza di salvare la struttura europea, ripensandone il governo in termini non formali ma esistenziali. Reclama infatti Marsilio «un’Europa che faccia meno cose e che le faccia meglio», e che faccia quindi «ciò per cui è stata pensata: servire gli interessi dei cittadini». Declinazione territoriale concreta della strategia Meloni e del suo progetto federatore. Ci vorrà tempo e tenacia, perché la storia scorre lenta e richiede intelligenza e pazienza.
Aggiornato il 25 giugno 2024 alle ore 10:30