La Schlein sta arrivando: ma dove?

Elly Schlein, segretaria del Partito democratico, è una gran furba. L’eloquio, la prossemica non sono da grande statista. Il modo col quale si presenta appare sgangherato, approssimativo, da inguaribile “casinara”. Invece, la signora Elena Ethel Schlein è una cinica opportunista. Ma sa raccontare alla perfezione le storie che crea. Il bello è che, a sinistra, cominciano a credere che la ragazza venuta dal nulla ce la possa fare a rovesciare a proprio favore l’orientamento politico della maggioranza degli italiani. D’altro canto, perché non provarci visto che con i suoi ha funzionato alla grande? Il punto di partenza della “narrazione” che surroga la realtà punta a ribaltare la percezione che l’opinione pubblica ha della sinistra in Italia. Per molti anni, l’immagine trasmessa dalla classe dirigente del Partito democratico è stata quella di un’organizzazione statica, incistata nelle logiche di potere, sorda alle istanze reali della gente, paralizzata nel controllo “staliniano” della società civile sottostante. Ecco che Elly, nel festeggiare la sua elezione a segretaria del partito, tira fuori un’espressione efficacissima: “Non ci hanno visto arrivare”. L’espressione idiomatica restituisce l’idea di un popolo che si è rimesso in cammino, di una dinamica interna alla sinistra che scarta di lato. La frase è potente, evocativa. Peccato, però, che non sia la sua. Elly l’ha rubata a Lisa Levenstein, intellettuale di pregio e autrice di They Didn’t See Us Coming: The Hidden History of Feminism in the Nineties (Non ci hanno visto arrivare: La storia nascosta del femminismo negli anni Novanta). Visto il successo, la neosegretaria Pd avrebbe dovuto riconoscere i diritti d’autore alla docente di Storia dell’università del North Carolina e magari dirle grazie. Ma la sua è simulazione di movimento. Elly si scopre regina senza regno, dal momento che la sua elezione a sorpresa è stata condizionata dall’effetto distorcente del voto ai gazebo di quelli che pur non essendo del Pd ne hanno orientato il destino grazie a una regola elettorale interna che è da trattamento sanitario obbligatorio.

Una volta al timone del più grande partito della sinistra ha provato a darsi dei contenuti che, seppure vagamente somigliassero a un progetto politico organico, non hanno catturato l’interesse – e la condivisione – dell’apparato dem. C’è una ragione. Le argomentazioni con le quali ha presentato la sua visione della società sono risultate talmente generiche, fastidiosamente radical-chic, e fuori contesto rispetto alla tradizionale constituency del Pd da non diradare i sospetti di una comunità politica che non ha cancellato il comunismo dal suo Dna. Il mondo di Elly e quello che vorrebbe modificare a sua immagine non sono e non saranno mai la stessa cosa. La classe dirigente del partito lo sa, ma per il momento fa buon viso a cattivo gioco. Il Pd conosciuto in questi anni al grande pubblico è stato strutturalmente governista nel senso togliattiano – con qualche eccellenza nelle amministrazioni locali – e moderatamente riformista, ma di un riformismo che mal si coniuga con l’approccio radicale, progressista oltre misura, della Schlein. Il Pd è atlantista sulla falsariga della svolta occidentale imposta, negli anni Settanta, al partito da Enrico Berlinguer e non disdegna la risposta dura che Nato e Unione europea hanno scelto per reagire all’aggressione russa dell’Ucraina. La “pacifista” Elly allora si scopre equilibrista e prova a danzare con sospetta sinuosità sul filo. Rotea nel vuoto la parola “pace”, badando però a che non tocchi mai terra. Anche sanità pubblica, scuola, lavoro dignitoso, nella sua narrazione assumono le sembianze fantasmagoriche di nastri colorati che, agli occhi affamati e delusi di un popolo della sinistra in cerca di un senso alla propria appartenenza, appaiono scintillanti pareidolie. Nella sua “narrazione” non serve entrare nel dettaglio di ciò che propone, è sufficiente fermarsi alla suggestione che tali proposte ingenerano. Il salario minimo? Come, quanto, per chi? Non si sa. Conta l’onomatopea.  

Non importa se non vi sia concordanza tra significante e significato, l’espressione-slogan “salario minimo legale” è trascrizione del suono. Stessa cosa dicasi per la decisione di brandire la battaglia contro l’autonomia differenziata, appena licenziata dall’attuale maggioranza, come la spada della giustizia divina che fu di Giovanna d’Arco. “L’autonomia differenziata spacca il Paese a metà, con un Nord ricco e un Sud sempre più povero”. Suona talmente bene da evocare, nell’immagine narrata, le altezze spirituali di un canto gregoriano. Invece, a guardare lo spartito, è più simile a un canone inverso di Johann Sebastian Bach. Lei batte sulla nota apocalittica. I suoi, colti da una bizzarra amnesia, la seguono come si segue un pifferaio magico, ignaro che la modifica costituzionale che ha introdotto l’autonomia differenziata tra Stato e Regioni l’abbiano voluta e approvata le forze della sinistra nel 2001; che già il Partito democratico della sinistra (Pds) di Achille Occhetto nella campagna elettorale del 1994 proponeva di passare a un federalismo solidale dando maggiori poteri alle Regioni; che la prima a chiedere al Governo il trasferimento della gestione delle materie di propria esclusiva competenza, insieme al Veneto e alla Lombardia, sia stata l’Emilia-Romagna presieduta da Stefano Bonaccini, oggi voce baritonale del coro muto schleiniano sulla spaccatura dell’Italia. E che dire del Giani bifronte, governatore della Toscana in quota Pd, che promette di non chiedere alcuna delega allo Stato per compiacere la sua leader, anche se non disdegnerebbe un regionalismo “equo e solidale”. Immenso Eugenio Giani, nel suo impudente cerchiobottismo. Somiglia a quelle pudiche spose sul cui camicione da notte campeggiava la scritta: “Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio”. Elly li fa tutti danzare al suono della sua musica, al medesimo ritmo delle pulci ammaestrate.

Ma il capolavoro sono state le Europee. Senza idee, senza proposte e senza un suo esercito da schierare, la sfida delle urne avrebbe potuto trasformarsi nella sua Caporetto. Invece, le è andata di lusso. Come ha fatto? Mettendo in campo coloro che per conto del Pd ancora riescono a drenare consensi: i sindaci. E un governatore. I numeri parlano chiaro. Nel Nord Est, un tempo feudo leghista, il Pd strappa la seconda posizione alle spalle di Fratelli d’Italia con un 25,77 per cento. A scorrere la graduatoria delle preferenze appare evidente che a trascinare la lista sia stato uno “stravotato” Bonaccini. Se Elly avesse dovuto contare sulla performance del suo fedelissimo Alessandro Zan sarebbero stati dolori. Nella circoscrizione dell’Italia centrale, dove lei era candidata, a tirare la carretta sono stati i consensi a Nicola Zingaretti, a Dario Nardella e a Matteo Ricci, inossidabile sindaco di Pesaro. Nella regione Marche, alle spalle dello sprinter Ricci, ha fatto meglio della Schlein financo una frustrata Alessia Morani, silurata sul traguardo dell’elezione dal “pacco raccomandato” Marco Tarquinio, in odore di santità sant’egidiana. In Toscana, Dario Nardella ha superato Elly nel gradimento degli elettori. Nella circoscrizione Meridionale, i capibastone dem, che la odiano, si sono dati un gran daffare per segnare il punto con un loro uomo: Antonio Decaro, sindaco uscente di Bari e maltrattato dalla Schlein. Decaro ha avuto un botto di voti. E non solo lui. Evidentemente la continua provocazione messa in scena ai danni di Vincenzo De Luca, il governatore campano colpito nell’amor proprio di “guappo di cartone”, ha funzionato.

Per dimostrare chi comanda in Campania, De Luca ha accettato la sfida lanciata dalla Schlein per l’interposta persona di Lucia Annunziata. Perché la volontà di andare allo scontro fosse chiara, il governatore ha puntato la sua dote elettorale su un candidato, noto nella periferia nord di Napoli ma sconosciuto alle cronache politiche nazionali: Raffaele Topo detto Lello da Villaricca, di cui è stato sindaco. Per lui è stato un trionfo, 114.503 preferenze. Seimila più dell’Annunziata. De Luca avrà pure gonfiato il petto, ma è Elly che si è fregata le mani. Alla fine della fiera, la Schlein ha vinto grazie ai voti di chi nel partito le è contro; di chi in passato stava con Matteo Renzi; di chi la pensa su molte cose all’opposto di lei. Una furbata che le ha consentito di arricchire la narrazione con una nuova espressione idiomatica, questa volta destinata al centrodestra: “Stiamo arrivando”. Ma davvero la segretaria dem pensa di andare avanti a furia di furbate? In quante altre occasioni potrà funzionare lo scherzetto di mettere in pista i campioni di preferenze? E quando si voterà con i listini bloccati, chi dei suoi non inseriti nel cerchio magico dei “garantiti” farà da portatore d’acqua? Elly vuole arrivare? Allora si preoccupi di dare un’identità definita e condivisa al suo campo, di costruire una linea politica coerente sulla quale impegnare tutto il partito e le forze affini del centrosinistra. Perché, parafrasando T. S. Eliot, ancor più della meta ciò che conta è il viaggio. E finora Elly ha viaggiato a sbafo.

Aggiornato il 24 giugno 2024 alle ore 09:35