Le svolte che segnano la storia raramente sono indolori. La Francia del dopo Europee si prepara a viverne una. Visti gli esiti elettorali, il presidente Emmanuel Macron ha deciso di sciogliere l’Assemblea nazionale (la Camera dei deputati d’Oltralpe) e di riportare i francesi alle urne. Avrebbe potuto attendere l’autunno. Invece, ha bruciato i tempi del voto per non dare al potenziale vincitore, il Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella, la possibilità di organizzare una campagna elettorale capillare. Tuttavia, è improbabile che la “mossa del cavallo” sortirà l’effetto desiderato. Ciò che solo qualche giorno fa ha condotto al trionfo il partito lepenista non è stato un incidente di percorso. C’è un vento in Francia che spira dalla provincia verso la Capitale e trascina con sé la volontà della maggioranza dei francesi di cambiare verso al proprio destino; di arrestare il declino economico e sociale a cui il Paese si consegnato; di farla finita con gli steccati ideologici e con i veti pregiudiziali; di offrire una chance a chi, non compromesso con la vecchia politica, ha le carte in regola per provare la propria ricetta di Governo nell’interesse della nazione. C’è voglia di destra al di là delle Alpi. É quindi comprensibile che i progressisti siano alla disperazione e non sappiano cosa inventarsi per impedire l’inevitabile.
Ma l’incutere paura nell’opinione pubblica, evocando lo spettro del pericolo fascista, è un’arma spuntata. La gente è stufa di essere manipolata. D’altro canto, lo sbarramento mediatico alzato a protezione dei progressisti è solo fumo che non basta a nascondere la realtà. Perché la maggioranza dei francesi torni a fidarsi dei progressisti, o peggio ancora della sinistra radicale, non è sufficiente mandare in onda le immagini parigine dei cortei anti-Le Pen o i discorsi terrorizzanti di personaggi del mondo dello sport che, dall’alto dei loro ingaggi ultramilionari, strologano di un fantomatico pericolo di rigurgiti fascisti. Diversamente, per comprendere la dimensione del “fenomeno” Le Pen si osservi il quadro della distribuzione del voto francese alle Europee su base regionale. Definirlo impressionate è poco. Nelle 13 regioni metropolitane e nelle 5 regioni-dipartimenti d’Oltremare, in cui è suddiviso il territorio francese, la lista “La Francia sta tornando! Con Jordan Bardella e Marine e Le Pen” è risultata ovunque vittoriosa, con l’eccezione della Martinica dove la lista della sinistra radicale di La France Insoumise-Union populaire ha prevalso sui lepenisti per alcuni decimali di voto.
Nelle altre regioni, il Rassemblement National ha doppiato nei consensi la lista “Besoin d’Europe!” dei macroniani di Renew Europe. In alcuni regioni – l’Alta Francia, Provenza-Alpi-Costa Azzurra, Corsica, La Réunion, Mayotte – la lista di Marine Le Pen e Jordan Bardella ha superato del 300 per cento il risultato dei macroniani. Anche ne Île-de-France la destra di Rn ha avuto la meglio. A sostenere la ridotta liberal-progressista sono rimasti i dipartimenti di Parigi e dell’Alta Senna. Troppo poco per arginare l’onda di destra che dalla provincia si è abbattuta sulla Capitale. È a causa di questi risultati che Emmanuel Macron ha sciolto l’organo parlamentare. Non volendo offrire sé stesso in sacrificio al vento del cambiamento, ha preferito abbandonare al suo destino l’Assemblea nazionale e tenersi stretto l’Eliseo. D’altro canto, chi al suo posto non avrebbe fatto lo stesso? Ma quando i giochi sono aperti tutto può accadere. Anche l’imprevedibile. Come la decisione choc del leader dei Les Républicains, Éric Ciotti, di stringere un’alleanza con il Rassemblement National. I neogollisti a braccetto con i lepenisti? Uno scandalo per i benpensanti del politicamente corretto.
L’isolamento della destra lepenista è stato per decenni un tabù che nessuno finora ha osato violare. Lo fa adesso Ciotti con un gesto coraggioso e insieme pragmatico. Il capo dei neogollisti ha compreso che non è più tempo di puntellare l’argine a destra perché ciò fa solo il gioco della sinistra, che nel frattempo si sta organizzando in un nuovo Fronte popolare su parole d’ordine antifasciste. Era ora che i conservatori d’Oltralpe prendessero coscienza del fatto che le ragioni le quali negli anni Sessanta spinsero il generale Charles de Gaulle a fare terra bruciata di tutto ciò potesse crescere alla propria destra siano state spazzate via dalla contingenza storica. Qui la pregiudiziale antifascista non c’entra un fico secco. Il Front National di Jean-Marie Le Pen, da cui origina l’odierno Rassemblement National, non c’entrava nulla con il fascismo letterario di Pierre Drieu la Rochelle, di Robert Brasillach e di Louis-Ferdinand Céline, né col fascismo odioso dei “collaborazionisti” del Governo di Vichy. La biografia di Jean-Marie Le Pen affonda le radici nel paleo-qualunquismo del movimento poujadista.
Più giovane eletto, nel 1956, all’Assemblea nazionale francese nelle fila dell’Unione e Fraternità francese di Pierre Poujade, Jean-Marie Le Pen se ne distaccò per intraprendere un lungo percorso che lo portò nel 1972 a fondare il Front National. Le Pen fece breccia tra gli scontenti dei ceti medi tradizionali e tra i nostalgici del colonialismo francese, messo in crisi dalla scelta di de Gaulle, nel 1962, di rinunciare a tenersi l’Algeria. Tra i militanti del Fn c’erano i reduci dell’Oas (Organisation armée secrète), la struttura paramilitare clandestina che aveva combattuto in Algeria per impedire che il Paese nordafricano, con il riconoscimento dell’indipendenza, si staccasse dalla Francia. I primi lepenisti furono i “pieds-noirs” che ce l’avevano a morte con de Gaulle. In compenso, il “generale” li considerava un peso inutile e ingombrante per la nuova Francia. È nostra convinta opinione che fosse il revanscismo, non il neofascismo, la chiave di lettura dell’antagonismo radicale lepenista. Il Front National, in linea con i partiti di destra in tutta Europa, negli Anni Settanta-Ottanta, s’intesta la missione di rappresentare lo scontento dei ceti medi tradizionali, senza alcun cedimento a nostalgie per il passato collaborazionista della Francia con l’occupante tedesco ai tempi del Secondo conflitto mondiale. Alla sinistra non fa comodo raccontare la verità, mentre preferisce confondere le acque battendo il tasto del pericolo fascista.
Eppure, fu proprio un intellettuale della sinistra a descrivere in tempi non sospetti la condizione dei movimenti di destra in Europa e, quindi anche in Francia, e a escludere l’esistenza di un cordone ombelicale che, negli anni Ottanta, avesse collegato senza soluzione di continuità le nuove destre al passato del nazifascismo continentale. Francesco Germinario, nella prefazione a L’avvenire di un passato: l’estrema destra in Europa: il caso del Fronte nazionale francese (1997) di Alain Bihr cita Piero Ignazi che nel 1986 scriveva: “I partiti di estrema destra sorti negli anni Ottanta non sono una rivalutazione del mito palingenetico del fascismo: essi offrono una risposta ai conflitti della società contemporanea”. Bisogna fare uno sforzo di comprensione per comprendere che il Front National, come anche la storia del Movimento sociale italiano dagli anni Ottanta, si muove lungo tale traiettoria. E l’odierno Rassemblement lepeniano ha progredito nell’allargamento del blocco sociale di riferimento a una platea più ampia di scontenti. Nel corso del tempo ha inglobato, insieme ai ceti medi tradizionali, anche quelli operai traditi dall’avvento della globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia.
Non è un caso se, nel programma di Marine Le Pen, spicchi più che la scontata attenzione alle politiche securitarie e alla lotta all’immigrazione, la promessa di reindustrializzazione del Paese. Éric Ciotti, la cui svolta è contestata dalla classe dirigente del partito ferma agli schemi del gollismo degli anni Sessanta, lo ha capito e per non restare tagliato fuori dal processo riformatore dell’economia e della società francesi ha deciso di lavorare con la Le Pen partendo dal punto di saldatura che unisce le due anime della destra (gollista e lepenista): fare dell’Unione europea una confederazione di Stati, lasciando cadere l’utopia federativa che potrebbe avere chance solo se avvenisse per mano di una nazione-guida, baricentrica in un sistema concepito per ruotare intorno al suo asse portante. Ora non resta che attendere il 30 giugno, data del primo turno del voto per l’Assemblea nazionale, per verificare se l’intuizione di Ciotti avrà retto o se i pregiudizi ideologici dei suoi sodali avranno avuto la meglio. Se avrà avuto ragione lui, la Francia regalerà a sé stessa e all’Europa i frutti – questa volta buoni – di una rivoluzione consumata senza spargimenti di sangue.
Aggiornato il 20 giugno 2024 alle ore 10:35