Troppo socialismo nel fascismo

Sassolini di Lehner

A quanti si presentano in libreria, sui giornali e in tivù come pontificatori di cosa fu il fascismo, le persone davvero preparate potrebbero consigliare di leggere, studiare, capire e digerire i tomi di un vero storico. Mi riferisco a Renzo De Felice: rigoroso, attendibile, indimenticabile studioso. I suoi volumi su Benito Mussolini sono fondati, infatti, su un certosino lavoro documentario, su uno straordinario orizzonte di ricerca, avendo come territorio d’indagine gli archivi e non il gossip dei gazzettieri.

De Felice, tutt’altro che nostalgico, inquadrò con obiettività meriti e demeriti del regime, non totalitario, bensì autoritario di massa, basato sul consenso pressoché universale. A noi meschini ci è toccato di sopportare intellettuali disinformati come il defunto Antonio Tabucchi, che riverniciò il suo antifascismo con una corbelleria cromatica annunciando, sdegnato, al mondo dei compagni asinelli che Antonio Gramsci era morto nel carcere fascista, mentre l’ex leader comunista finì i suoi giorni da uomo libero nella clinica privata romana Quisisana, con tutta probabilità pagata personalmente da Mussolini, che aveva buona memoria. Il giovane Gramsci, infatti, nel 1914-1915 era stato mussoliniano ed interventista.

Ci affligge anche il fastidioso ronzio alle orecchie degli aciduli fonemi di Serena Bortone. Sul Ventennio la conduttrice piddina di Rai 3 mostra di sapere solo quello che ha sentito dire in qualche bar di Saxa Rubra. Alla domanda “il fascismo fece qualcosa di buono?”, gli attuali semianalfabeti sedicenti esperti di fascismo, presi da furore antifascistico, rispondono, irridendo addirittura il quesito e coloro che osano porlo. Il fascismo, anzi, secondo uno di codesti diversamente storici, il giornalista Aldo Cazzullo, fu soprattutto malaffare e Mussolini un “capobanda”.

In verità, stando a una fonte più credibile, Emilio Guarnaschelli, assassinato nel 1938 dai sovietici su istigazione dei compagni del Partito comunista d’Italia, gli unici Al Capone perfettamente identificati si trovavano al Cremlino e tra i dirigenti comunisti italiani in quel di Mosca. Eppure, a scorno di Cazzullo, un serio appartenente alla sinistra, risponderebbe: ebbene sì, il fascismo introdusse più socialismo di quanto Psi e Pci riusciranno a immaginare, proporre e realizzare nell’Italia repubblicana.

Gli stessi comunisti, nel 1936, con Palmiro Togliatti in testa, lo riconobbero: “I comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori (…) Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi. Lavoratore fascista, noi ti diamo la mano perché con te vogliamo costruire l’Italia del lavoro e della pace, e ti diamo la mano perché noi siamo, come te, figli del popolo, siamo tuoi fratelli, abbiamo gli stessi interessi e gli stessi nemici, ti diamo la mano perché l’ora che viviamo è grave, e se non ci uniamo subito saremo trascinati tutti nella rovina (…) ti diamo una mano perché vogliamo farla finita con la fame e con l’oppressione. È l’ora di prendere il manganello contro i capitalisti che ci hanno divisi, perché ci restituiscano quanto ci hanno tolto”.

Ecco alcune molecole socialiste introdotte dall’ex direttore dell’Avanti!:

1925: Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia;

– 1933: Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), progettato e presieduto da Alberto Beneduce. A riprova che il “capobanda” nei momenti difficili privilegiava il merito non la delinquenza, ecco che per contrastare la crisi del 1929, Mussolini non si affida ad un fascista, ma ad un “tecnico” non iscritto al Pnf (Partito nazionale fascista), già collaboratore di Giovanni Giolitti e Francesco Saverio Nitti. Beneduce, per giunta, era massone e socialista riformista (due etichette sufficienti per una condanna penale o per il confino);

– 1934: assegni familiari per i lavoratori dell’industria, estesi, poi, agli impiegati, agli agricoltori, ai militari;

– 1939, reversibilità della pensione e riduzione dell’età pensionabile da 65 a 60 anni per gli uomini, 55 anni per le donne;

– 1939: premi per la nuzialità e la natalità;

– 1943, le contribuzioni, prima paritarie, vengono portate ai 2/3 a carico dei datori di lavoro e 1/3 per gli assicurati. Del resto, a Salò si voleva instaurare una Repubblica sociale, basata, innanzitutto, sulla “socializzazione delle imprese”, come scritto nel Manifesto di Verona (14 novembre1943).

Si potrebbe continuare per la gioia dei nostalgici del fascismo rosso. Il sapido e aguzzo Andrea Mancia mi suggerisce, però, un paradosso, che farà impazzire gli antifascisti boriosi ed ignoranti. Secondo il direttore del L’Opinione delle libertà, una vera e forte ragione per la quale i liberali dovrebbero essere decisamente antifascisti, a parte la vergogna e l’orrore delle leggi razziali – peraltro approvate ed esaltate da tanti di lì a poco futuri antifascisti – è celata proprio nelle evidenti corpose tracce di socialismo da settimana rossa presenti in Mussolini e nel fascismo. Troppo socialismo nel fascismo, dunque, per non essere fieramente antifascisti.

Aggiornato il 18 giugno 2024 alle ore 10:13