Lega: cuori nella tormenta

Il voto per le Europee ha contribuito a scuotere il clima in casa leghista. Doveva accadere. Da troppo tempo il partito di Alberto da Giussano vive una crisi d’identità che va risolta una volta per tutte. Il dato di partenza da cui genera la discussione interna al Carroccio è nel risultato conseguito lo scorso fine settimana. La Lega ha ottenuto il 9 per cento nelle circoscrizioni italiane. Un esito elettorale imparagonabile a quello del 2019 in cui ottenne un clamoroso 34,33 per cento e 28 seggi all’Europarlamento, lievitati a 29 per l’attribuzione di un seggio in più assegnato a febbraio 2020, in seguito all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Tuttavia, nello spoglio della scorsa domenica è stato registrato un lievissimo incremento del dato percentuale rispetto al voto per la Camera dei deputati del settembre 2022 (+ 0,21 per cento). Tanto è bastato perché Matteo Salvini potesse certificare la non-sconfitta del suo partito. Le ragioni dei critici che vorrebbero un cambio di linea politica e, celatamente, anche di leadership si focalizzano sul fatto che la Lega, un tempo espressione delle regioni del Nord e sostenitrice di una questione settentrionale mai risolta dallo Stato centrale, abbia tradito la sua missione divenendo un partito a vocazione nazionale.

La guardia pretoriana schierata a difesa del Capitano controbatte sostenendo che i leghisti del Nord, affezionati al movimento delle origini, dovrebbero accendere un cero a quei “terroni” senza il cui voto oggi la Lega sarebbe un cespuglio in stile calendiano con consensi da prefisso telefonico. Chi ha ragione? Sul piano numerico i “sovranisti” non sbagliano. Dal voto disaggregato per circoscrizioni si rileva che il consenso nelle aree del Centro, del Sud e delle Isole sia attestato su una media del 6,86 per cento, che non è lontanissimo dall’11,9 per cento ottenuto nel Nord Ovest, ma soprattutto dal 10,2 per cento del Nord est. È grazie alla tenuta del partito sotto la “Linea gotica” che Salvini ha potuto dichiarare la non sconfitta della Lega. Ma c’è un di più che origina dalla domanda: quale candidato ha trascinato la lista nelle varie circoscrizioni? Qui la risposta non ammette appello. La candidatura dell’outsider Roberto Vannacci ha funzionato da traino in tutte le aree, comprese quelle del Nord dove i dirigenti leghisti lo hanno boicottato non poco ritenendolo un soggetto alieno alla tradizione del partito.

Tanto per intenderci, nel Veneto dell’osannato governatore Luca Zaia il 13,15 per cento di voti ottenuto dal Carroccio – che di suo non è per nulla un buon risultato dopo un quindicennio di amministrazione “zaiana” della Regione – lo si deve in massima parte al successo personale riscosso dal generale Vannacci che ha raggranellato in loco 72.048 preferenze, marcando una distanza abissale dal secondo più votato Paolo Borchia, espressione del territorio ed europarlamentare uscente, che ne ha ottenute 20.551. La storia non è fatta di “se…”, tuttavia la domanda diabolica ci sta: quale sarebbe stato il risultato della Lega in Veneto senza Vannacci in lista? Il quesito non prevede risposta. In Emilia-Romagna, la situazione è ancora più paradossale. Lì la Lega ha registrato il 6,48 per cento dei consensi. Ma il conteggio delle preferenze racconta di un Vannacci a quota 41.519 voti mentre il secondo di lista più votato, Alessandra Basso, si è fermata a 2.699 preferenze.

Altrove al Nord la musica non è cambiata. Le uniche eccezioni sono state il Trentino-Alto Adige e il Friuli Venezia-Giulia dove due candidati locali l’hanno spuntata per il primo posto della graduatoria regionale, di un soffio sulle preferenze ottenute da Vannacci. In particolare in Friuli dove la sindaca di Monfalcone, Anna Maria Cisint ha preso il largo con 31.309 voti contro i 19.760 di Vannacci. La singolarità sta nel fatto che la Cisint, in quanto a carattere, è una sorta di generale Vannacci in gonnella per cui, come si dice, cambiati l’ordine degli addendi la somma non cambia. Il successo personale di Vannacci innesca il tema della mission leghista e spiega il perché del vistoso crollo rispetto alle precedenti Europee. Da tempo sosteniamo che esista in Italia, dall’alba della Seconda Repubblica, un’area di elettorato protestatario che prova, con alterna fortuna, a ottenere una rappresentanza politica che ne tuteli gli interessi. Attesa la sua mobilità nello spostarsi da un punto all’altro dell’offerta partitica e la sua volatilità nel cambiare rapidamente giudizio, tale area la si potrebbe paragonare a una nuvola che di volta in volta si posiziona su quelle organizzazioni che le mostrano attenzione e ascolto.

È stato così per la Forza Italia di Silvio Berlusconi che mobilitò nel 1994 il popolo delle partite Iva in vista della Rivoluzione liberale. In quella circostanza, la parola-chiave fu “rivoluzione” più che “liberale”. È stata successivamente la volta di Matteo Renzi. Nel suo caso la parola chiave fu “rottamazione”. Poi c’è stato il “Vaffa” di Beppe Grillo e in ultimo il “padroni a casa nostra” di Matteo Salvini. Momenti che hanno segnato ascese alle quali sono seguite inesorabili cadute dei partiti nella considerazione di questo ampio segmento dell’elettorato. Il fattore che ha determinato la perdita di consenso è da mettere in relazione con l’incapacità del rappresentante di soddisfare le istanze del rappresentato. Attualmente, una parte di quella nuvola si è concentrata su Giorgia Meloni – lo attesta il dato sorprendente di Fratelli d’Italia che raccoglie il consenso più alto (24 per cento) tra le fasce sociali economicamente più svantaggiate (fonte: analisi dei flussi di Swg) – mentre un’altra parte è refluita nell’astensione. Comunque la si guardi il problema sta nel grado di reazione che i partiti e i loro leader sono in grado di esercitare su un sistema che regge sugli equilibri di potere nazionali e sovranazionali consolidatisi con l’avvento della globalizzazione. Quel popolo vuole dei capi che facciano muro, in tutte le sedi, ai danni che il mondialismo gli sta provocando in termini di sicurezza occupazionale e sociale.

La scelta salviniana di mettere in campo un paracadutista incursore di professione restituisce anche plasticamente l’immagine di una Lega che si prepara a stare in Europa con una bomba tra le mani e il pugnale tra i denti. Ciononostante, per metterla sulla metafora clinica, Salvini ha frenato l’emorragia del consenso grazie a una trasfusione di sangue fresco recato da Vannacci. Ma non lo ha del tutto arginato. Già, perché perde, in numeri assoluti, 375.128 voti rispetto alle Politiche del 2022. Allora, se processo vi dovrà essere, alla sbarra non dovrà presentarsi solo il segretario federale Matteo Salvini ma anche, imputati per concorso in fallimento, i governatori leghisti del Nord che, appagati dalla buona amministrazione dei loro territori, si ostinano a non voler guardare la realtà che si muove oltre il proprio naso. Il mondo in cui sorse e prosperò la Lega bossiana delle origini non esiste più. L’ipotesi della destrutturazione degli Stati nazionali per una ricomposizione delle realtà locali omogenee su base distrettuale, governate da un regolatore centrale insediato a Bruxelles, è anticaglia del passato.

Oggi, i primi sovranisti non si chiamano Viktor Orbán e Marine Le Pen, ma Emmanuel Macron e Olaf Scholz. E anche quando al vertice del continente c’è stata la signora Angela Merkel, l’idea di europeismo che andava per la maggiore nei luoghi del potere continentale somigliava più all’implementazione con altri mezzi e con qualche aggiustamento nella cabina di comando del mai dimenticato (dai tedeschi) “Piano Funk”dal nome del ministro per gli Affari economici del Terzo Reich dal 1937 al 1945, Walther Funk – che alla continuazione del patto De Gasperi-Adenauer-Schuman. I nostalgici del separatismo camuffato da autonomia federalista e del con-il-Sud-mai dovrebbero riflettere sul cambiamento della direzione del vento in Europa, registrato la scorsa domenica da quell’anemometro d’eccezione che è la cabina elettorale. Pur mettendo da parte i sentimenti di gratitudine che dovrebbero essere rivolti a chi si è fatto carico di sollevare da terra un cadavere politico e di rimetterlo in cammino – la gratitudine è un sentimento che la politica politicante non contempla – la domanda da girare ai nostalgici dei bei tempi andati è: volete mollare il bagaglio delle idee e degli ideali che vi hanno portato a rinascere dopo il tonfo bossiano proprio adesso che quei valori e quelle idee vanno diffondendosi in tutta Europa? Se così fosse, lasciate che ve lo si dica: Tafazzi al vostro confronto non era nessuno.

Aggiornato il 17 giugno 2024 alle ore 09:44