Europa e progressisti: sogno e desiderio

Otto giorni all’alba e finalmente sapremo la verità su chi sarà destinato a guidare l’Europa che verrà. Toccherà nuovamente a un centrosinistra sempre più sinistra-dipendente o vi sarà l’agognata svolta a destra? Non abbiamo la sfera di cristallo per anticipare alcun verdetto, per cui possiamo solo sperare. E, se possibile, desiderare. Sperare di uscire dall’incubo di un’Unione europea governata dai progressisti che, pur essendo minoranza quasi ovunque, per una qualche misteriosa ragione che attiene alla mancanza di spina dorsale del più grande partito continentale – il Partito popolare europeo – è sul ponte di comando della sgangherata nave comunitaria e da quella posizione privilegiata ne impone la rotta. Sperare nella salvezza della nostra identità di popolo e di nazione, continuamente attentata da un’ideologia mefitica che promuove l’azzeramento di ogni diversità in funzione della definitiva trasformazione dell’individuo da cittadino a suddito di un potere tecnico-burocratico, sovraordinato allo Stato nazionale.

Sperare nella valorizzazione delle tradizioni e delle peculiarità locali che hanno fatto grande il nome dell’Italia nel mondo. Sperare che la cultura mediterranea sopravviva all’assalto del moralismo peloso e a tratti razzista del protestantesimo che domina le terre del Nord. Sperare che le concentrazioni capitaliste delle multinazionali non l’abbiano vinta nel progetto di strangolare le piccole realtà produttive connesse ai territori, in nome di una mondializzazione che è sinonimo di massificazione dei bisogni e delle istanze collettive. E soprattutto non l’abbiano vinta nel perverso proponimento di convincere l’uomo medio europeo di essere perfetto in sé e padrone del suo destino nel mentre gli stringono ai polsi i ceppi della schiavitù consumista. Ma, come abbiamo detto, anche desiderare. Desiderare che l’uomo medio europeo non venga ulteriormente illuso di poter governare quel processo “superlativamente complesso e richiedente sottigliezze incalcolabili” – per dirla con le parole di José Ortega y Gasset – che è il mantenimento della civiltà alla quale oggi l’Occidente è pervenuta, talvolta suo malgrado.

Desiderare che termini il bombardamento mediatico degli organi di stampa al servizio dei progressisti che vorrebbero convincerci di non provarci nemmeno a cambiare verso all’Europa perché questo non potrà mai accadere, vista l’irreversibilità della traiettoria progressista e multiculturalista proiettata al futuro. Al riguardo, l’articolo comparso ieri l’altro su Repubblica dal titolo “Chi conta davvero in Europa”, a firma di Claudio Tito, rappresenta la supponente dichiarazione egemonica di coloro che ostinatamente rifiutano l’idea che possa esistere un orizzonte europeo differente dall’hortus conclusus del “sinistrismo ontologico” con cui il progressismo nutre le sue tante utopie. Cosa dice Tito? Al netto dell’eccessiva quantità di bile che riversa sulla persona di Giorgia Meloni, sul suo Governo e in generale sul centrodestra, la penna di punta del giornale scalfariano scrive con fiera assertività:

1) Dopo il colloquio berlinese tra Emmanuel Macron e Olaf Scholz, i prossimi vertici delle istituzioni europee si definiranno solo con il consenso di Parigi e Berlino.

2) Giorgia Meloni è fuori da tutti i giochi e intorno a lei sarà stretto un “cordone sanitario europeo” per emarginarla.

3) Ursula von der Leyen se vuole aspirare a un secondo mandato presidenziale deve rinunciare all’amicizia di Giorgia Meloni e rinnegare qualsiasi tentazione a guardare a destra.

4) Il Partito popolare europeo non può che obbedire a ciò che è scritto nelle Tavole della Legge progressista, cioè allearsi ai socialisti, ai liberali e, se necessario, ai Verdi per formare la maggioranza nel nuovo Europarlamento.

5) L’unica speranza di salvezza per l’Italia è tentare di inserirsi nella traiettoria Parigi-Berlino. Ma, visto che i due padroni del vapore europeo – Macron e Scholz – la Meloni non la vogliono vedere neppure in cartolina, il sottinteso dell’editorialista è: a patto che si metta qualcuno a Palazzo Chigi più gradito alla coppia dell’asse carolingio, magari un “tecnico” alla Mario Draghi, sostenuto da un Governo di salvezza nazionale. Ora, sappiamo benissimo che libertà d’opinione significhi diritto di ognuno di dire le idiozie che vuole e anche di spararla grossa. Altra storia è che i desideri scambiati per analisi oggettive abbiano cittadinanza nel regno della verità fattuale. Ma prendiamo, in iperbole, per buone le “verità” scolpite sulla pietra dall’opinionista di Repubblica. Facciamo che effettivamente i vertici europei li decidano a tavolino Macron e Scholz. Di grazia, con quali voti?

Già, perché anche le istituzioni comunitarie hanno preso il cattivo vizio di far votare le nomine dagli eletti dai popoli. Sarebbe quella cosa inutile e ingombrante che la gente comune chiama democrazia, ma visto che c’è bisogna pur rispettarne le regole. Torniamo a Macron e a Scholz. Già da prima non è che i partiti di cui sono leader avessero un’affollata rappresentanza all’Europarlamento, ma adesso che per entrambi si prevede una significativa sconfitta elettorale con quali voti dovrebbero imporre il loro diktat? Poi, la signora Ursula von der Leyen. La baronessa germanica non sarà un’aquila ma neanche un’ingenua. Se ha deciso di “aprire” a Giorgia Meloni è perché si è fatta quattro conti e ha capito che la vecchia maggioranza “Ursula” tra popolari, liberali e socialisti potrebbe non avere i numeri per assicurarle la rielezione, mentre qualche chance in più potrebbe venirle dall’intesa tra popolari e conservatori. Per Claudio Tito tale possibilità è una soluzione che la mente non contempla, che non è scritta nelle Tavole della Legge progressista. Quel che più stupisce della “dotta analisi” del giornalista di Repubblica è il modo con il quale viene considerato il Partito popolare europeo. Praticamente, un’ameba; una forza politica priva di funzione pensante, in grado soltanto di fare massa critica da mettere al sevizio della volontà egemonica dei progressisti. Una carenza di leadership del Ppe che lo spingerebbe financo tra le braccia del fanatismo ambientalista dei Verdi pur di tenere in piedi un centrosinistra europeo in deficit di ossigeno e di numeri. Qui, però, la domanda va rivolta ad Antonio Tajani che tiene tanto al ruolo di rappresentante in Italia del Ppe. Caro Tajani, è davvero come la racconta Tito? Il Ppe è pronto alla qualunque pur di tenere la sinistra alla guida dell’Unione? Tale è il livello di appiattimento del maggiore partito continentale? Se così fosse sarebbe bene spiegarlo da subito agli elettori di modo che siano in grado di sapere prima cosa accada dopo votando Forza Italia alle Europee.

Vengono alla mente i popolari spagnoli di Alberto Núñez Feijóo. Difficile immaginarli a Strasburgo dire ai colleghi del gruppo del Ppe: non vediamo l’ora di metterci insieme all’olandese Frans Timmermans o alla tedesca Annalena Baerbock per fare ambientalismo ideologico à go-go. E cosa ne penserebbe Isabel Díaz Ayuso, politica del Partido Popular (PP), che governa la Comunità autonoma di Madrid con l’appoggio della destra e che i socialisti li mangerebbe volentieri a colazione? E Les Républicains (Lr) francesi, neogollisti, che in Europa stanno nel Ppe? Anche loro sono pronti a fare da mosche cocchiere al trionfo degli sconfitti dal voto degli europei e dalla Storia? Fortuna che a breve tutto questo teatrino finirà. All’alba del prossimo 10 giugno – anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia nel Secondo conflitto mondiale – sapremo se Claudio Tito ha guardato il futuro attraverso la palla di vetro o se si è limitato a riportare sulla carta le divagazioni oniriche di notti tormentate dalle visioni da incubo di una Meloni alla guida del carro dei vincitori anche in Europa. Siamo curiosi.

Aggiornato il 03 giugno 2024 alle ore 09:32