Sassolini di Lehner
Egregio ministro degli Esteri, come sai, essendo alieno da familismo, patriottismo, partitofilia amorali, non ti ho lesinato critiche, quando ritenni giusto disapprovarti. Oggi, però, ti difendo a spada tratta, perché sei stato bullizzato da un tenace negazionista. Tu, nel dire che Palmiro Togliatti fece arrestare Antonio Gramsci dalla polizia fascista, hai semplificato nella forma, ma hai avuto ragione nella sostanza. Premesso che il mio liberalismo arriva al punto di non condannare il diritto di negare la realtà, tant’è che mi dissociai da quanti invocavano il carcere per David Irving, che, pure, mentendo per la gola, sventolava prove taroccate per negare la Shoah, non posso passare sotto silenzio che il comunista mai pentito, Angelo D’Orsi, precipitato dalla Stampa al Fatto Quotidiano, ti abbia sbertucciato dalla sua immarcescibile postazione di negazionista dei crimini del PCd’I. Ha osato, infatti, prenderti in giro, ironizzando sulla barzelletta di Togliatti che dà ordini a Benito Mussolini, paradosso che gli serviva per negare che Gramsci fu vittima dei suoi stessi compagni di partito e in primo luogo di Togliatti. Questi, certo, non impartiva ordini a Mussolini, essendo stato, da giovane, insieme ad Antonio, ardente sostenitore del Benito interventista, si limitava a prenderli da Iosif Stalin. L’ubbidienza cieca al grande macellaio fece di lui il carnefice di migliaia di comunisti, italiani, tedeschi, spagnoli, polacchi. Esercito, dunque, il mio diritto di raccontare non bubbole negazioniste, bensì fatti inconfutabili.
Il destino di Antonio viene segnato inesorabilmente dalla sua onestà intellettuale, assente, di norma, nei cervelli marxisti-leninisti. Il 14 ottobre 1926, Gramsci, che ha il vizio di pensare con la sua testa, dissente pubblicamente dalle minacciate sanzioni contro tre padri dell’Ottobre. Scrive, infatti, al Comitato centrale del partito bolscevico: “Cari compagni, voi oggi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Pc dell’Urss aveva conquistato per l’impulso di Lenin”. Insomma, il comunista sardo osa difendere Grigorij Zinov’ev, Lev Trockij e Lev Kamenev, esortando Stalin e Nikolaj Bucharin a rispettare la minoranza, quand’anche abbia politicamente torto. Gramsci, ingenuamente, affida il documento a Togliatti, che si trova a Mosca, pregandolo di farlo tradurre in russo e inviarlo ai destinatari. Togliatti si rende conto che la lettera, stante la feroce intolleranza bolscevica, è esplosiva, quindi non fa nulla di quanto richiesto dal segretario e dall’ufficio politico del PCd’I. La dà a Bucharin in via confidenziale e il “figlio prediletto del partito” gli ordina di cestinarla.
Togliatti, per giunta, risponde da “rieducatore” al “deviazionista”, cercando di convincerlo che il “rigore”, sinonimo di terrore, è necessario a tenere in vita la dittatura del proletariato. Antonio non si piega, anzi risponde: “Tutto il tuo ragionamento è viziato di burocratismo”. In gioco c’è la partita decisiva tra partiti comunisti occidentali, che non vorrebbero la russificazione del comunismo e i bolscevichi che intendono l’Internazionale come la loro acritica portaborse. Gramsci, già malvisto da Stalin per il rapporto con Amadeo Bordiga, è ormai marchiato a fuoco. Non solo, Antonio intende recarsi a Mosca. Con la fronte strenua dei sardi, vuole addirittura leggere ad alta voce davanti a Stalin il suo forte richiamo alla maggioranza bolscevica. Il 27 ottobre 1926, scrive alla moglie russa: “Il 30... partirò da Roma e cercherò di uscire dal Paese per venire all’allargato (Esecutivo allargato della III Internazionale, ndr) non sono sicuro di riuscire sino in fondo, ma pare ci siano alcune probabilità favorevoli”. Il piano per l’espatrio è così congegnato: Gramsci deve essere condotto a Polcevera, dove si sarebbe confrontato con un altro “rieducatore”, Jules Humbert-Droz, emissario del Comintern. Da lì, poi, attraverso la Francia, avrebbe raggiunto l’Urss. Il PCd’I, in grado di far espatriare migliaia di semplici iscritti, con Gramsci si dimostra del tutto inefficiente. A Polcevera non arriverà mai, mentre i compagni lo rispediscono da Milano a Roma. Pochi giorni dopo, l’8 novembre 1926, Antonio viene arrestato nella Capitale dalla polizia fascista.
Egregio Tajani, fu proprio Gramsci, confidatosi con Gustavo Trombetti, compagno di cella nel carcere di Turi, ad addossare la responsabilità del mancato espatrio e, quindi, del successivo arresto, ai compagni. Una volta uscito dal carcere, avrebbe voluto che la “circostanza fosse esaurientemente chiarita dal partito”. La verità è che Gramsci per nessun motivo deve arrivare a Mosca e declamare davanti ai membri del Comintern la lettera del 14 ottobre. Nell’Italia fascista, Gramsci potrebbe evitare la lunga condanna, se la linea difensiva, fondata sul non essere un capo del PCd’I, non fosse stata contraddetta da una lettera, spedita da Mosca, febbraio 1928, di Ruggero Grieco, allora segretario di fatto. Le parole di Grieco rivolte ad Antonio sono inequivocabili: Gramsci è il leader.
Lo stesso giudice istruttore Enrico Macis, stupefatto e sorpreso dal fatto che la prova accusatoria provenga da Mosca, avverte l’imputato: “Ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”. Anche sulla mascalzonata di Grieco sono intervenuti negazionisti e ballisti, vedi il creativo Luciano Canfora, che umiliò le proprie doti di filologo, inventandosi che la missiva di Grieco fosse un falso dell’Ovra. L’Ovra non c’entra un bel niente e Gramsci stesso spiega chi siano i mandanti di Grieco: “Si tratta di un atto scellerato, o di una leggerezza irresponsabile? È difficile dirlo. Può darsi l’uno e l’altro caso insieme; può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere... La mia impressione è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire, una “pratica burocratica” da emarginare e nulla di più... Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale, che ha compilato l’atto legale di condanna. Devo dire che tra questi “condannatori” c’è stata anche Iulca – la moglie di Gramsci, costretta a lavorare con il servizio segreto – credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente... ma c’è una serie di altre persone meno inconsce. Questa è almeno la mia persuasione, ormai ferreamente ancorata perché l’unica che spieghi una serie di fatti successivi e congruenti tra loro”.
In realtà, non è soltanto una “pratica burocratica” da emarginare, ma, peggio, un traditore. Che ha osato dare del distruttore e fonte di degrado a Baffone. Anche in carcere, i compagni stalinisti lo tengono a distanza e talora provano a malmenarlo. Quando nel Pci si discusse se pubblicare, sia pure emendati e manipolati, i suoi scritti, persistendo le ombre di deviazione, un importante dirigente del Pci, Emilio Sereni, si dichiarò decisamente contrario. Infine, a riprova di come Togliatti e compagni trattarono Gramsci c’è la squallida vicenda dell’eredità. Il Pci derubò vedova e orfani dei milioni dei diritti d’autore di Antonio sino al 1996, lasciando la famiglia moscovita di Gramsci nella normale indigenza sovietica. Con i denari sottratti alla famiglia, il Pci poté titillare le vanità degli intellettuali organici e moltiplicare le proprie pubblicazioni. Comunque, egregio Tajani, se vuoi approfondire l’argomento mi permetto di consigliarti – e lo indico anche ai negazionisti D’Orsi e Canfora, in favore dei quali difenderò il loro diritto di taroccare la realtà – il mio saggio, fondato sui documenti inoppugnabili presenti nell’archivio del Pcus di Via Ilinka di Mosca: La famiglia Gramsci in Russia, con i diari inediti di Margarita e Olga Gramsci, Mondadori, Milano 2008.
Aggiornato il 28 maggio 2024 alle ore 10:15